Al tempo dell’arte romanica, in un’epoca in cui pochi artisti lasciarono il nome alla storia, alcune donne hanno l’esplicità volontà di lasciar traccia. Non interpretiamo questo fatto come frutto di un probabile narcisismo, ma come un modo di esprimere il loro stretto rapporto con la vita, di fare genealogia, cioè di stabilire legami tra loro e anche con le donne del passato e con noi. Volevano non solo evitare che si perdesse la memoria del loro passaggio nella vita, ma anche mostrare la loro possibilità di ricreare la vita, usando l’antica e sacra arte di dare forma e colore all’irrapresentabile divinità, per mezzo del tessuto, del ricamo, cioè delle loro faccende più quotidiane, e anche per mezzo del disegno e della pittura.
La ricerca visiva di queste artiste medievali, la spinta a dipingere, miniare, ricamare... sorgono dall’incontro con altre donne del loro tempo e si collegano alle donne di oggi. Queste artiste che ci hanno lasciato il loro nome ci mostrano come è possibile coltivare l’individualità senza misconoscere le relazioni in cui il talento matura.
FRANCHI, Donatella, Matrice. Pensiero delle donne e pratiche artistiche. Quaderni di Via Dogana, Milano. Libreria delle donne di Milano, 2004, pp. 7-10.
Storicamente, le donne non hanno aiutato a costruire il mito dell’artista né quello della sua opera, e nemmeno il mito del genio; firmano le loro opere semplicemente riaffermando il loro nome di donna con cui si identificano come tali: Maria, En, Teresa, che le rende uniche, e riconoscendosi autrici.
Le artiste creano mediante i segni. Anche quando si tratta di scrittrici, ci attrae un segno, un’impronta fisica della mano, la calligrafia o la firma del nome. Negli “scriptoria” altomedievali c’erano donne copiste e miniatrici, non solo religiose ma anche laiche, letterate e conoscitrici del latino. Per esempio, nella cattedrale di Vic è documentata l’esistenza, agli inizi dell’XI secolo, di Guisla -sposata con Guilbert- e di sua figlia Alba; madre e figlia si definiscono grammatiche, e le troviamo che scrivono alcuni documenti. L’amore al tratto lasciato dalla mano che scrive, dipinge o ricama, esprime il ricordo nostalgico del corpo, il desiderio di colmare la distanza tra il pensiero rappresentato e il corpo che lo produce.
GROS, Miquel S., “Els textos d’ensenyament en l’escola catedralícia de Vic al segle XI”. Symposium internacional sobre els orígens de Catalunya (VIII-XI), Barcellona, RABLL, vol. 2, 1992, pp. 19-26.
FRANCHI, Donatella, Cómo actúan la disparidad y el deseo en las prácticas creativas de las mujeres. Una reflexión de imágenes y palabras. “Duoda” 27, 2004, pp. 109-124.
Nel dialogo che può derivare da questo processo possono incontrarsi e confluire linguaggi diversi, e da questo incontro possono scaturire a volte parole, a volte immagini.
Le donne medievali dedicavano buona parte della vita a filare, tessere e ricamare; di fatto, queste sono state occupazioni delle donne di ogni tempo. Era un lavoro in primo luogo utile, ma anche creativo, e dalle loro mani potevano uscire vere e proprie opere d’arte, specialmente i tessuti dedicati ai paramenti liturgici e agli addobbi delle chiese, oppure ai corredi funebri di personaggi di rilievo.
Possiamo ritenere che la maggior parte delle artiste del filo, che hanno lavorato i magnifici capi che si sono conservati fino ai nostri giorni, fossero donne; di fatto, i corredi delle chiese e i paramenti sacri continuano a tutt’oggi ad essere realizzati da donne, religiose o laiche.
La maggior parte di queste opere sono anonime, ma possiamo pensare senza sbagliarci che praticamente tutte uscirono da mani di donne artiste. Tra i più bei ricami romanici che si sono conservati, ce ne sono alcuni che la tradizione conosce con il nome di qualche donna, come il ricamo detto della “contessa Guisla”, conservato nel monastero di Sant Martí del Canigó (Conflent), che sarebbe una tovaglia d’altare che si potrebbe datare XI secolo.
Catalunya Romànica, VII, Gran Enciclopèdia Catalana, Barcellona, 1995, 343-344.
Ma alcune artiste ricamatrici vollero lasciare il loro nome alla storia. In Catalogna si sono conservate due memorabili opere ricamate firmate da donne: la cosiddetta “Stola di San Narciso”, tessuta e ricamata da Maria, e “L’insegna o stendardo di San Ottone”, di Elisava.
Ci è sembrata molto suggestiva l’ipotesi di identificazione della ricamatrice Maria con la badessa María di Santa Maria de les Puelles di Girona. Dell’antico monastero abbiamo ben poca informazione, ma i pochi riferimenti sono estremamente interessanti. Sappiamo che la viscontessa di Narbona, Riquilda, figlia dei conti di Barcellona Wifredo II e Garsenda, nel suo testamento, lasciava parte dei beni perché il vescovo di Girona costruisse entro due anni un monastero davanti alla città, in onore di Santa Maria, anche se non specificava che fosse di monache. Il conte Borrell II, suo cugino primo, nel testamento faceva donazione di alcuni beni allodiali (cioè senza vincoli feudali) alla casa di Santa Maria de les Puelles di Girona, che nel 992 aveva una comunità femminile.
UDINA, Antoni, La successió testada a la Catalunya Altmedieval, Fundació Noguera, Barcellona 1984, d.11, anno 962.
BARAUT, Cebrià, “Els documents dels anys 981 al 1010 de l’Arxiu Capitular de la Seu d’Urgell”, Urgelia III, 1980, doc.232, 233.
Degli avvenimenti di questo monastero restano poche tracce documentali, cosicché queste donne sarebbero quasi perdute per la storia; ma una lapide sepolcrale, datata alla fine del X secolo, ci permette di identificare una religiosa che voleva essere ricordata, come se lei e le sue compagne temessero che il silenzio si portasse via per sempre il suo ricordo. Sul sepolcro si parla di ricordo e di memoria:
Catalunya Romànica I, Barcellona, GEC, 1994, p.143. - Catalunya Romànica V, Barcellona, GEC, 1991 p.149.
“Maria di venerabile ricordo, che si è impegnata ogni giorno della sua vita in sante opere e nei comandamenti; perseverante, assolutamente, nelle elemosine, molto devota alle memorie e orazioni dei santi, conservando con cura estrema la regola del monastero, rimane nella verginità di Dio.”
Maria voleva lasciare traccia e lo fece nel modo che conosceva. Nella parrocchia di Sant Feliu di Girona si conserva una stola magnificamente tessuta e ricamata, conosciuta come “la stola di San Narciso”, sulla quale appaiono delle parole che identificano Maria come l’autrice del lavoro. Sono state fatte diverse ipotesi sulla datazione del ricamo e del tessuto della stola. Noi abbiamo trovato estremamente interessante quella pubblicata da Mundó, che identifica l’artista del telaio e del ricamo con la badessa Maria citata nella lapide sepolcrale, cioè con un’artista della fine del X secolo.
Catalunya Romànica I, p. 143-144.
Con la stola Maria realizzerebbe il desiderio di essere ricordata firmando il lavoro, e darebbe validità a ciò che si dice nell’epitaffio: “impegnata in sante opere e nella devozione alla memoria dei santi”. Cosicché la stola fu prodotta da Maria forse per il nuovo sepolcro di Sant Feliu, costruito all’epoca del vescovo Miró Bonfill, morto nel 984, o per quello di San Narciso, con cui popolarmente si identifica la stola.
Il lavoro della monaca artista non è solo di grande bellezza, ma mostra anche una notevole erudizione. Tra le frasi che si possono leggere nel tessuto c’è un frammento appartenente alle “Laudi” che si cantavano all’incoronazione dei re carolingi. Inoltre contiene la benedizione episcopale che si dava alla fine della messa. Comunque vorremmo mettere in evidenza una delle frasi del tessuto che orla la stola: “[Ricorda,] amico, Maria mi fece, chi porterà questa stola su di sé, interceda per me affiché Dio mi aiuti”. Benché la parola “sappi” o “ricorda” risulti lacunosa nel tessuto, possiamo permetterci di interpretarla in questo modo; Maria voleva essere ricordata, era consapevole di aver fatto un lavoro elaborato e bello. Sarebbe anche da commentare la parola “amice”, l’espressione del sentimento dell’amicizia usata al vocativo, che ci sembra tanto grafico, con cui questa donna del X secolo si rivolgeva affettuosamente a chi avrebbe portato la stola, e a noi che più di mille anni dopo la contempliamo. Quando nel 1018 la contessa Ermesenda fondò Sant Daniel di Girona non sembra restasse traccia dell’antico monastero femminile di Santa Maria; è come se la preoccupazione di Maria di non essere dimenticata avesse un fondamento, come se lei sapesse che la sua comunità aveva i giorni contati.
A parte le lettere che adornano, su tessuto rosso, il contorno della stola, in mezzo e alle due estremità figurano dei magnifici ricami a colori forti e caldi, alcuni fatti in filo d’oro. A una delle estremità c’era un san Lorenzo, molto malconcio, nell’altra il battesimo di Cristo, e in mezzo c’è quello che consideriamo il più bel ricamo, con l’immagine della Madre di Dio con il vestito dorato e con il lemma “Santa Maria ora pro nobis”.
Il ricamo di Maria non è l’unica opera d’arte firmata da una donna. Eliseva firmò il cosiddetto stendardo di San Ottone, che, proveniente dalla Cattedrale di Urgell, si conserva presso il Museo dell’abbigliamento di Barcellona. Qualche storico dell’arte considera Elisava una committente dell’opera, noi non condividiamo questa teoria, pensiamo che la recisa affermazione “Elisava me fecit” abbia a che vedere con il lavoro reale, non solo con il pagare o patrocinare l’opera.
Catalunya Romànica I, p. 55-58.
Lo stendardo ricamato, in toni rossicci e dorati, di seta su un tessuto di lino, conservato presso il Museo dell’abbigliamento di Barcellona, potremmo datarlo intorno al XII secolo. L’opera è incentrata sulla figura del Salvatore dentro la mandorla mistica avvolta nei simboli degli evangelisti e ornata da un bordo di motivi vegetali. Dallo stendardo pendono tre strisce della medesima stoffa, anch’esse ricamate con figure oranti od offerenti, che sono evidenti figure femminili, cosa che ha fatto pensare a qualcuno che la figura centrale potrebbe rappresentare Elisava, committente del ricamo; ma è solo un’ipotesi, che non condividiamo. Per noi Elisava è la ricamatrice; in ogni caso, se l’esperta e delicata ricamatrice non fosse questa donna di cui conosciamo solo il nome ma non il lignaggio, sarebbe un’altra donna, più anonima, ad aver realizzato il magnifico lavoro. Comunque sia, l’unità e la bellezza dell’opera ci fanno pensare a una grande compenetrazione tra chi la ordinò e chi la realizzò. Potrebbe essere stata Elisava l’artista e la committente allo stesso tempo? Un’altra ipotesi: se identifichiamo il destinatario dello stendardo in San Ottone vescovo di Urgell, figlio di Lucía de la Marca e del conte Artau I de Pallars Sobirà, morto nel 1122, possiamo dire che proprio l’immagine offerente che figura in mezzo allo stendardo ci ricorda il dipinto in cui appare Lucia, madre di sant’Ottone, che offre il murale del monastero di Sant Pere del Brugal.
La miniaturista che presentiamo è stata chiamata indifferentemente En o Ende, anche Eude, a seconda di come si legga il colophon del manoscritto del Beatus di Girona: En depintrix o Ende pintrix. Il Beato de Girona è un manoscritto miniato, contiene 115 miniature, ed è uno dei manoscritti pittoricamente più ricchi della tradizione dei commenti all’Apocalisse iniziata dal monaco Beato del Valle de la Liébana.
I Beati si copiavano in volumi di grande formato e con un gran numero di quaderni; sono in generale manoscritti di considerevoli dimensioni e molto voluminosi.
Le miniature del complesso di libri conosciuti come Beatus o Beato -che come abbiamo detto è un commento dell’Apocalisse fatto da un monaco chiamato Beato della valle della Liebana- non ha confronti nel mondo medievale né occidentale né orientale. È sorprendente, nel quadro degli scriptoria dei diversi regni della penisola iberica, il numero di esemplari copiati e anche conservati, secondo la storiografia artistica più alto che in Francia o in Germania, dove pure si copiò e illustrò il Libro de la Revelación. Sono sorprendenti anche le dimensioni e la quantità di illustrazioni di questi manoscritti; la storiografia fa notare che la caratteristica fondamentale di questa miniatura è l’antinaturalismo come risultato del confluire di diverse vie di rappresentazione e iconografiche, che si combinano in un linguaggio molto personale ed estraneo alle forme occidentali fino ad allora conosciute.
YARZA LUACES, J., Beato de Liébana. Manuscritos Iluminados, Barcellona, p. 33.
Un Beato o Beatus è tuttavia ben più che un Commento all’Apocalisse, perché nel testo del commento vennero inserendosi altri testi con immagini e, a volte, immagini senza nessun testo, fino ad arrivare a formare un libro altamente complesso. L’ultima storiografia dell’arte ha ritenuto che uno dei manoscritti più complessi sia proprio il Beato di Girona.
È necessario che ci formuliamo una domanda importante: chi furono i destinatari o le destinatarie di queste opere di lusso e molto care? Soprattutto in un’epoca (fine del X secolo e inizi dell’XI) e in territori che la storiografia ci ha sempre rappresentato come non particolarmente ricchi. La risposta è che i committenti di queste grandi opere erano i monasteri e anche alcune cattedrali che ne avrebbero ordinato qualche esemplare per le loro non molto fornite biblioteche.
Conosciamo il nome dello scrivano o copista che si è occupato della trascrizione del testo del Beatus di Girona, in scrittura visigotica, su bifoli di buona pergamena di vitello. Ce lo dice nel folio 283v.-284 dove risulta Senior presbiter scripsit. Conosciamo anche il nome della miniatrice: En depintrix et Dei aiutrix. Frater Emeterius et presbiter. Traduciamo così: “En pittrice e aiutante di Dio. Frate Emeterio, presbitero”. E lo interpretiamo in questo modo: En dipinge le miniature lasciando passare attraverso di lei, attraverso il suo corpo e le sue mani, la plasmazione dell’innominabile, del divino, sacro, aiutando Dio a farsi presente in un oggetto, in questo manoscritto. E Emeterio, il miniatore di altri Beati accredita l’autorialità di En, cioè Emeterio conferma che così è: En ha dipinto questo Beato.
L’iscrizione rivendica in modo chiaro l’autorialità dell’opera per una donna di nome En che è pittrice, è pienamente consapevole della sua funzione ed è anche consapevole della sua importanza. Con i suoi dipinti, con le illustrazioni del Beato, En lascia passare attraverso la sua persona il divino, il sacro, che prende corpo nella pergamena, nelle immagini che accompagnano il testo, e che sono un altro testo che si fa leggere per se stesso, del Commento all’Apocalisse, e rende conto della trascendenza divina che c’è in ciascuna di noi. In questo senso interpretiamo le parole Dei aiutrix, aiutante di Dio nel senso che attraverso di sé ci trasmette il divino, ci avvicina in immagini la storia della trascendenza in terra, e ci mostra ciò che dobbiamo fare - secondo il testo - per arrivare alla vera trascendenza con Dio alla fine dei tempi. E lo fa da donna, per questo le illustrazioni del Beato di Girona sono diverse da quelle di altri Beati attribuiti a pittori uomini. Il Beato di Girona è il più ricco di miniature, è il più ricco quanto a tavolozza di colori utilizzati, ed è anche particolare nell’interpretazione che la pittrice fa di alcune scene e paesaggi.
Teresa Díez concepì i suoi dipinti come immensi arazzi (320x435 cm) per abbellire pareti costruite con paramenti che davano un’apparenza molto modesta. Precisamente, l’opera era destinata a decorare i muri del monastero delle clarisse di Toro (Zamora). L’autrice disseminò di forme e colori queste pareti, con scene che avvicinavano le religiose a scene del vangelo e alla vita di donne dei primi secoli del cristianesimo. Così, per esempio, un percorso visivo e testuale per i dipinti di Teresa Díez permette di ricostruire la vita di santa Caterina d’Alessandria, sottolineando il ruolo di questa donna rispetto al potere patriarcale, il suo sapere, la mediazione femminile.
L’esposizione di questo messaggio pittorico-testuale, esplosione di colore e di luce, avrebbe senz’ombra di dubbio mosso alla devozione religiosa: le monache avrebbero letto quei dipinti e avrebbero pregato come pregavano con un libro di devozioni o come pregavano durante l’ufficio divino.
Teresa Díez usa un linguaggio che invita alla vita, pieno di poesia, di luce; un linguaggio artistico che, seguendo le vie del nascente stile gotico, lo interpreta in modo personale, a partire dal suo essere donna: il tratto è sicuro ma allo stesso tempo spontaneo, il disegno lineare agisce piuttosto da cornice per l’esplosione dei colori. La tecnica dell’affresco impone una rapidità di esecuzione che spesso permette di vedere le correzioni o pentimenti, le ombreggiature, le miscele e le sfumature dell’autrice.
Teresa raffigura la vita di una santa, una vita che sicuramente si sarà ispirata alle leggende auree di moda in quel momento. Compone una grande narrazione figurata, come le Bibliae pauperum che dovevano servire per le e gli illetterati ma anche muovere alla devozione e alla compassione di fronte a una vita esemplare. Le scene si susseguivano in riquadri -come se fossero vignette di un fumetto attuale- illustrate da didascalie. L’eccezionale presenza, per un affresco, di tante didascalie ci fa pensare che le sue destinatarie fossero in gran parte dotte. Le scene sono tratte dalle Somme teologiche dell’epoca, che riunivano una grande quantità di particolari iconografici che si adattavano all’ordine feudale dominante (gerarchizzato, con una rete di relazioni e con dei valori cavalleresco-aristocratici).
I cicli pittorici dei murali del coro del “Real Monasterio de Santa Clara de Toro” sono i seguenti:
Attualmente l’affresco, dopo essere stato trasportato con la tecnica della rimozione a stacco con trasferimento su tela, si conserva nella chiesa di San Sebastián de los Caballeros di Toro (Zamora).
1. Il primo ciclo è dedicato a santa Caterina d’Alessandria, donna sapiente, che fin da piccola si dedicò allo studio; appartenente a una famiglia di sangue reale - per questo porta sempre sul capo una corona -, vergine e martire, è considerata la patrona di quelli e quelle che si dedicano alla filosofia; il suo culto si sviluppò con grande successo in Occidente dopo le Crociate. Il ciclo è formato da ventun scene, alcune mutilate dall’apertura di una porta, dall’istallazione di un organo barocco e dalla disposizione del mobilio che funge da reliquiario. Si possono leggere molto bene le scene della disputa teologica di Caterina con l’imperatore, l’incarcerazione, la flagellazione e l’arrivo di un angelo nella prigione, raffigurata come un castello medievale. Sulla porta dell’edificio, inginocchiati, figurano l’imperatrice e il generale Porfirio, convertiti al cristianesimo grazie agli argomenti di Caterina. L’imperatore convoca i saggi di Alessandria; un angelo rivela alla prigioniera, Caterina, come morirà e andrà in cielo. Nonostante i guasti, possiamo leggere: COMO DESPUTA [...] (Come disputa) - il testo è giusto sopra la scena in una fascia orizzontale separata dalla scena seguente solo da una croce patente nera piena di colore. Nel passaggio seguente Caterina convince i saggi a convertirsi al cristianesimo; l’imperatore li manda al rogo, e in una fascia sopra la scena si legge: COMO MANDÓ QUEMAR LOS SABIUS (Come mandò a bruciare i saggi). Segue il tentato supplizio della ruota con chiodi e catene, e si legge: E COMO LA MANDÓ ÉL EN EL TOROMENTU DE LAS RUEDAS (Come egli la mandò al tormento delle ruote). Poi la decapitazione, e si legge: “COMO LA [MA]NDÓ EL REY DESCABEÇAR” (Come il re la mandò a decapitare); e la traslazione del suo corpo, ad opera degli angeli, al monte Sinai dove viene sepolta. Le scene riguardanti santa Caterina non seguono l’ordine del racconto di Jacopo da Varagine; sicuramente la pittrice seguì qualche tradizione o leggenda pia divulgata della devozione per la santa.
2. Il secondo ciclo si trova di fronte a quello di Santa Caterina d’Alessandria. Questo murale (275x417 cm) raccoglie le immagini che fanno riferimento a Giovanni Battista in dieci scene con testi: nella prima l’arcangelo Gabriele predice a Zaccaria che sua moglie Elisabetta concepirà un figlio, nella seconda figura la visitazione della Vergine a sua cugina incinta, nella terza la nascita del Battista, la sua infanzia nel deserto -ragione che le serve per spiegare che così egli sfuggì alla strage degli innocenti-, e l’irruzione nella vita pubblica; nella parte inferiore: si vede che rimprovera Erode Antipa perché vive con Erodiade, la moglie di suo fratello, e il corrispondente testo dice: COMO LE REPRENDE LA MUJER DE SU ERMANO (Come gli rimprovera la moglie di suo fratello). Segue la scena della carcerazione del Battista, e il testo dice: COMO LO MANDO PRENDER EL REI (Come lo mandò a prendere il re). Poi la scena del banchetto di Erode in cui Salomè chiese la testa di Giovanni, e il testo dice: “COMO LA FIJA LE PEDIÓ LA CABEÇA” (Come la figlia gli chiese la testa). Poi la decapitazione, e il testo: COMO LOS DESCA BEÇAN E LE DAN LA CABEÇA (Come lo decapitano e le danno la testa). Alla fine la pittrice riporta la scena della sua sepoltura a Sebaste di Samaria, il testo dice: COMO LO SEPULTAN LOS DISCIPULLUS (Come lo seppelliscono i discepoli).
In questo affresco è ancora più accentuata la sensazione di libertà nella rappresentazione e di scena domestica. Per esempio possiamo citare la posizione di Erode, seduto a gambe incrociate, come segno di sovranità; anche il probabile simbolismo della frutta -forse per il suo potere afrodisiaco?- che Erodiade tiene nella mano sinistra; di nuovo la rappresentazione del castello di Maquerota e la presenza di una regina -con espressioni di grande dolore- alla sepoltura di Giovanni Battista. Così la pittrice riprendeva l’importanza dei valori aristocratici nella sepoltura di un santo di lignaggio distinto. Ma in alcune scene si vede anche l’eredità della rappresentazione romanica, come per esempio la prospettiva frontale per raffigurare la tavola del banchetto, o il boia che esegue la decapitazione o i soldati della carcerazione sospesi in aria come se non potessero poggiare i piedi a terra. Come il murale precedente, anche questo è concepito come un grande arazzo, e rafforza ancor più l’idea il bordo o cornice che lo rifinisce. Questa cornice è decorata con volute crocifere che hanno una certa somiglianza con i dipinti della Seu Vella [Cattedrale Vecchia] di Lleida. Tra le volute decorate con croci ci sono scudi, alcuni inquartati, con leoni e fiordalisi, e altri con uccelli passanti di sciabola, simili a gazze (urracas) o corvi; se propendiamo per le gazze, lo scudo potrebbe appartenere a qualche donna che si chiamava Urraca.
3. Un terzo murale, mutilato, appare separato in tre pannelli con immagini di san Cristoforo, sant’Agata, santa Lucia e altre due sante; ci sono anche cinque passaggi della vita di Cristo: la Presentazione al Tempio, l’ultima Cena, l’Epifania, il Battesimo e l’apparizione alla Maddalena e a sua sorella Marta mentre sta uccidendo il drago davanti alle mura di Nerluco o di Tarascona. Nel bordo superiore se legge: A IESU XPO. COMO APARECE IESU XPO. A LA MADA LENA [...] (A Gesù Cristo. Come appare Gesù Cristo alla Maddalena). È possibile che la mutilazione di queste composizioni fosse motivata dai cambiamenti nella devozione e nel gusto estetico. Le perdite maggiori si produssero durante il XVIII a causa dell’apertura di una porta e dell’istallazione di un piccolo tabernacolo-reliquiario e di un organo barocco. Le mutilazioni colpiscono soprattutto la parte superiore. La parte conservata lo è grazie alla protezione offerta dal tettuccio dei sedili del coro.
Del pannello dedicato ai santi francescani si sono conservati solo due frammenti, in uno si riconoscono santa Chiara e san Francesco con le stigmate.
Con questi dipinti si intendeva offrire alle monache un immenso tappeto di colore che alleggerisse il rigore delle pareti del coro, e dei modelli esemplari di vita cristiana.
I dipinti di Teresa Díez cronologicamente corrispondono alla fase del cosiddetto gotico lineare o franco-gotico. Come si può osservare, non si conosce la prospettiva, le figure si muovono su due dimensioni e quando bisogna rappresentare molte figure - come nella scena dei saggi, per esempio - la difficoltà di inserirle in uno spazio ridotto viene risolta ricorrendo alla isocefalia e a uno scalamento in profondità, come si faceva in epoca romanica, ma nei dipinti di Teresa Díez predomina il naturalismo, e inoltre risaltano figurazioni in cui si percepisce una certa tenerezza e vicinanza alla vita quotidiana e alla realtà storica del momento. Se si guarda con attenzione le scene, si può vedere che le costruzioni dipinte sono castelli, cioè si adattano, come altri particolari, al momento in cui vive l’autrice. Non v’è dubbio che la pittrice sia Teresa Díez, come dice un frammento del testo: TERESA DIEÇ ME FECIT. I dipinti si possono situare durante la prima ricostruzione del Real Convento de Santa Clara, finita verso il 1316. La pittrice pare che fosse attiva tra questa data e il decennio del 1320, circa.
Proponiamo che innanzitutto si dia uno sguardo ai ricami e ai dipinti. Le immagini sono pensiero visivo, non hanno bisogno di essere spiegate in parole. Le immagini sono l’impronta di un’esperienza viva, impronta delle relazioni vitali di cui si nutrono.
Alcune artiste vivono l’arte come una disponibilità al dono, un aprirsi agli e alle altre, una maniera di condividere e far circolare creatività. Ricamare per essere ricordate, ricamare in memoria di, cioè ricordando; in definitiva, facendo storia. Dipingere aiutando Dio a trasmettere conoscenza, dipingere ricreando figure e vite.
La pittura e i ricami che qui presentiamo sono accompagnati da parole scritte, alcune che identificano le artiste, altre che chiariscono il loro rapporto con le immagini e il rapporto delle immagini con chi le osserva, parole che sono prima e dopo le opere visive e che costituiscono il lavoro delle relazioni: sono uno spazio di incontro tra l’esperienza di chi le crea o fa e di chi le guarda.
Sarebbe anche necessario far emergere il fatto che, quando compare qualche raro nome proprio di donne artiste, bisogna dedurre che ce ne furono molte di più anonime, e anche altre che la storia può ancora scoprire. E inoltre che per poterle incontrare non solo non dobbiamo limitarci alle arti maggiori, ma occorre guardare anche alle arti decorative e all’artigianato di qualità. Così, l’aragonese Violante de Algaraví, pittrice di cortine che aveva apprendiste/i, o la barcellonese Caterina Fuster, maestra di paramenti sacri, diventano visibili nella documentazione dei secoli XIV e XV.
GARCIA HERRERO, M.C., MORALES GOMEZ. J.J. “Violant de Algaraví, pintora aragonesa del siglo XV”, Aragón en la Edad Media, XIV (1998).
VINYOLES, T. Les barcelonines a les darreries de l’Edat Mitjana, p. 40.
Stola di San Narciso, parte centrale
Stola di San Narciso, frammento di tessuto che cita Maria come autrice
Frammento del tessuto della stola di San Narciso
Stola di San Narciso, ricamo della punta sinistra della stola
L’ALFA colorata
Donna sulla bestia rossa (folio 63)
La palma dei giusti (folio 147 verso)
Miniatura del Beatus di Girona (secoli X-XI)
En riconosce di essere autrice
Ciclo di Caterina d’Alessandria
Ciclo della vita di Gesù
Ciclo di Giovanni Battista
Particolare di San Cristoforo
Ricamo detto della “contessa Guisla”
Stendardo di San Ottone, opera di Elisava
© 2004-2008 Duoda, Centro di Ricerca delle Donne. Università di Barcellona. Tutti i diritti riservati. Acreditamenti. Nota legale.
Regia Scientifica: Maria Milagros Rivera Garretas
Ringraziamo per l’aiuto il Proyecto de Investigación del Instituto de la Mujer I + D nominato: "Entre la historia social y la historia humana: un recurso informático para redefinir la investigación y la docencia" (I+D+I 73/01), e anche il Institut Català de la Dona de la Generalitat de Catalunya e l'Agrupació de Recerca en Humanitats de la Universitat de Barcelona (22655).
Regia tecnica: Dr. Óscar Adán
Produzione Esecutiva: Dr. Sonia Prieto
Edizione: Marta García
Correzione: Gemma Gabarrò
Traduzione catalana: David Madueño
Traduzione in anglese: Caroline Wilson
Traduzione tedesca: Doris Leibetseder
Traduzione italiana: Clara Jourdan
La proprietà intellettuale dei testi e delle altre opere contenute in questo sito appartiene in via esclusiva ai rispettivi autori.
Salva espressa indicazione contraria, è vietata la riproduzione totale o parziale, con qualsiasi mezzo, di ogni elemento e contenuto del presente sito, a eccezione delle riproduzioni effettuate per uso esclusivamente personale. In particolare, sono vietati la riproduzione e l'uso a scopo di lucro, o comunque a fini di profitto, dei contenuti del sito. Ogni altra forma di utilizzazione deve essere previamente concordata con Duoda, Centro de Ricerca de Donne. Università de Barcellona.
© 2004-2008 Duoda, Centro de Recerca delle Donne. Università de Barcellona. Tutti i diritti riservati.
M.-Elisa Varela RodríguezMedievista e paleografa. Si occupa dello studio del libro e della cultura scritta nel Basso Medioevo, e dello studio del commercio bassomedievale catalano nel Mediterraneo. Nata nel settembre 1958 a Saviñao-Monforte de Lemos (Lugo, [Galizia, Spagna]), si è diplomata all’Istituto Narciso Monturiol di Barcellona, e laureata in Storia medievale presso la Facoltà di Geografia e Storia dell’Università di Barcellona, dove ha preso il dottorato nel 1995. Nel penultimo anno del corso di laurea entrò nel progetto Duoda, diretto da M.-Milagros Rivera Garretas del CIHD, di cui continua a far parte, come ricercatrice e attualmente anche come vicedirettrice del Centro de Investigación de Mujeres Duoda dell’Università di Barcellona. È docente della Facoltà di Lettere dell’Università di Girona, dove fa parte del gruppo di ricerca Estudis Culturals, ed è ricercatrice del progetto coordinato Historias de vidas de mujeres. Coronas de Aragón y Castilla (siglo XV). Lavori principali: El control de los Bienes: Los libros de cuentas de los mercaderes Tarascó (1329-1348), Barcellona 1996; “Palabras clave de Historia de las Mujeres en Cataluña (siglos IX-XVIII)”, Duoda, 12, 1997; El libro de Horas de Carlos V, Madrid 2000; Mujeres que leen, mujeres que escriben: Letradas en la Baja Edad Media, Barcellona 2001; El Oficio de la Toma de Granada, Granada 2003; Aprender a leer, aprender a escribir: Lectoescritura femenina (siglos XIII-XV), Madrid 2004. |
Teresa Vinyoles VidalTeresa Vinyoles Vidal è nata a Barcellona nel 1942; sposata con due figli e due figlie, è docente titolare di Storia medievale all’Università di Barcellona e fa parte del Centro Duoda di tale università dalla sua fondazione. Tra le sue linee di ricerca ci sono lo studio delle donne, a cui si è dedicata dal 1969, e quello della vita quotidiana nell’epoca medievale; coordina un progetto di ricerca sulla didattica della storia. Tra i suoi lavori: Les barcelonines a les darreries de l’edat mitjana (Barcellona, Fundació Vives Casajuana, 1976); La vida quotidiana a Barcelona vers 1400 (Barcellona, Fundació Vives Casajuana, 1985); Mirada a la Barcelona medieval des de les finestres gòtiques (Barcellona, Dalmau, 2002); Presència de les dones a la Catalunya medieval (Vic, Eumo, 2004). E numerosi articoli sulla storia delle donne, tra i quali: Petita biografia d’una expòsita barcelonina del segle XV (Barcellona, CSIC, 1989 p 255-272); L’amor i la mort al segle XIV, cartes de dones (“Miscel·lania de textos medievals” 8, Barcellona, CSIC, 1996, p. 111-198), e Las mujeres del año mil (“Aragón en la Edad Media” XVII, 2003, pp.5-26). |
Contessa di Pallars Sobirà, figlia dei conti Amelia e Bernardo de la Marca, sorella di Almodis, contessa di Barcellona, fu promessa al conte Guillermo II de Besalú ma non si sposò con lui. Si sposò con il conte Artau I de Pallars Sobirà (1049-1081). Lucía intervenne negli affari di governo a fianco del marito e del figlio Artau II, e diventò tutrice dei figli del conte Ermengol IV di Urgell. Morì probabilmente verso il 1090. Suo figlio Ot, vescovo di Urgell, fu riconosciuto santo e lei viene lodata nella sua agiografia.
Il documento delle nozze tra Lucia e Artau è sorprendente: “Che Artau, conte, tenga Lucia finché viva come l’uomo deve tenere la donna che ha preso legalmente. Che non la abbandoni finché ella viva, sotto nessun pretesto, salvo che se lei fosse lebbrosa. Che non la molesti né la calunni al punto che lei debba lasciarlo” (Liber Feodrum Maior, doc. 37, anno 1058).
Pittrice che svolse la sua attività in area castigliana all’epoca di María de Molina (c.1265-1321). La storiografia dell’arte la colloca nell’ambiente del nucleo artistico che si sviluppa agli inizi del gotico a Salamanca. Frutto dell’attività di questo nucleo artistico sono la cappella di San Martino e alcuni sepolcri della Sede Vieja di Salamanca. Teresa Díez dipinse i murali del coro del Real Monasterio de Santa Clara di Toro, e lasciò la sua impronta pittorica anche nella Collegiata e nella chiesa di San Pietro della medesima città, oltre che nel fregio del tempio di La Hiniestra e nei murali al piede della chiesa di Santa María la Nueva di Zamora, che le sono stati attribuiti.