Propongo una riflessione intorno al lavoro femminile nel mondo medievale. Potremmo partire dalla teoria feudale della società tripartita: quelli che pregano, quelli che combattono e quelli che lavorano; ma già i pensatori medievali si resero conto che in questa stretta divisione sociale era molto difficile classificare le donne, e un chierico irlandese si affrettava ad affermare: Non dico che la funzione delle donne sia di pregare, lavorare o combattere, ma che esse sono sposate con coloro che pregano, lavorano e combattono, e li servono. A questo “servire” potremmo dare un doppio senso. In primo luogo potremmo intendere che le donne svolgessero compiti servili, che in senso proprio sono lavori manuali e pesanti, quelli per i quali si ricorreva anche alle schiave; ugualmente potremmo dire che realizzassero un’opera che andava oltre il lavoro retribuito: loro servono, sono utili. Seguendo il testo alla lettera dovremmo dire che la missione delle donne consisteva nell’essere utili agli uomini della comunità; dandovi un senso più ampio potremmo affermare che si riconosce che servono a tutta la comunità.
Testo di Gerbert de Limerick (Irlanda 1110-1130) citato da Georges Duby in Les Trois Ordres ou l’imaginaire du féodalisme.
Il lavoro manuale, specialmente il lavoro della terra, era proprio dei servi, uomini e donne; tutte le faccende quotidiane della casa erano proprie delle donne di qualunque classe sociale. Durante i secoli medievali si considerarono servili i lavori che si svolgevano propter lucrum, per lucro: non specificamente i lavori manuali né solo quelli retribuiti bensì quei lavori che non si potevano fare di domenica. Molte incombenze quotidiane femminili potevano sembrare materialmente servili, cioè manuali, ma erano formalmente libere, giacché non erano remunerate; così non sarebbero state considerate moralmente servili, per cui si sarebbero potute svolgere di domenica. In questo modo, di fatto, si dà dignità al lavoro casalingo, ma le occupazioni femminili non hanno fine, le donne non dispongono per sé di nessun giorno di ozio. La vita delle donne è una vita piena di lavoro.
Dicevo che i lavori delle donne potevano sembrare meramente manuali, ma sappiamo che non è così: possiamo affermare che il lavoro delle donne si presenta in due modi diversi: come lavoro servile e come “lavoro emozionale”; il lavoro servile si riferisce alle lunghe giornate di lavori domestici ripetitivi, con risultati effimeri; il lavoro emozionale consiste in una serie di compiti e pratiche molto complesse, di trasmissione, di relazione, di attenzione. Alcuni pensatori medievali riconoscevano questa funzione: Non ignori che quando qualcuno si trova in salute o ammalato (le donne) servono molto diligentemente, e meglio, e più rettamente degli uomini. Notiamo che si insiste nel senso di “servire”.
Sul tema: Hilary Rose, “Trabajo de mujeres: conocimiento de mujeres”. In Mujeres: ciencia y práctica política, Madrid, Debate, 1987, pp. 57- 86.
Bernat Metge, Lo Somni, Barcellona, Barcino, 1925, p. 102.
Ci sono delle abilità delle donne, accumulate per generazioni e trasmesse di madre in figlia, da signore a serve, persino da serve a signore, da maestre a apprendiste; sono saperi propri della collettività femminile; tra le molte cose che dovevano sapere bisogna pensare anche alla gestione e all’amministrazione. Questi lavori erano spesso contrapposti, su un piano teorico, all’attività spirituale. I sermoni parlavano di Marta e Maria: il lavoro di Maria, quello contemplativo, che possiamo considerare, fino a un certo punto, intellettuale, era riservato quasi esclusivamente alle monache; il resto delle donne, comprese le nobili o le borghesi, dovevano essere Marte, cioè tutte loro dovevano impegnarsi nella dedizione alla famiglia, ai compiti e al governo della casa, al lavoro con la rocca. Mentre per gli uomini delle classi agiate si offrivano momenti di ozio, si chiedeva a tutte le donne che fossero sempre occupate.
La casa medievale, tanto una masseria come un castello o una casa urbana, è una unità di produzione, consumo e riproduzione; la donna di tutte le classi sociali si faceva carico dell’amministrazione e del buon governo della casa, collaborava alle attività professionali del marito, che in caso sostituiva, si faceva carico di tutto quando diventava vedova; doveva conoscere delle tecniche e mettere in pratica delle strategie, per cui le si richiedevano capacità e anche attitudini, in definitiva doveva essere sapiente: Alla donna conviene vivere saggiamente e governare con giudizio se stessa e la sua casa, e istruire i suoi figli e le sue figlie, e la sua compagna.
I testi citati sono di Francesc Eiximenis, Dotzè del Cresià, capp. 554 e 563, rispettivamente. Pubblicato in La societat catalana al segle XIV, a cura di Jill Weebster. Barcellona, Edicions 62, 1967, pp. 80-83.
Le padrone di casa dovevano amministrare l’economia domestica e svolgere le faccende quotidiane, anche se erano solo le donne di più uminili condizioni a farlo da sole; nelle case più agiate e a volte non molto agiate c’era qualche serva o schiava che aiutava nei lavori più pesanti; poteva dunque sembrare che le padrone di casa stessero spesso in ozio, ma come vedremo non era così, normalmente erano al corrente degli affari e dei redditi familiari e anche loro lavoravano con le mani.
Le donne delle classi popolari era evidente che non potevano smettere di lavorare, in modo molto diretto si riferiva a loro Eiximenis: Delle semplici e delle minori di quelle non c’è bisogno di parlare, dato che per forza devono essere occupate se vogliono vivere. Oltre alle faccende domestiche, dovevano dedicare parte del loro tempo a qualche lavoro retribuito, come aiutanti nei campi, nell’opificio delle famiglie artigiane, o con un lavoro proprio, normalmente poco qualificato e mal pagato. L’impressione che dà la documentazione medievale è che tutte erano capaci di svolgere una grande quantità di attività, conoscevano tecniche molto varie, i lavori occupavano le loro ore e i loro giorni, molti di questi lavori erano legati alle faccende quotidiane, cioè alla vita. Inoltre osserviamo che erano depositarie e trasmettitrici di una cultura che, in parte, era differente rispetto alla cultura dominante.
Il documento che presentiamo ci offre un campionario dei molteplici lavori, dei sorprendenti saperi, della costante attività di una vedova della nobiltà. Si tratta di brani di un libro di contabilità della nobile Sancha Ximenis de Cabrera, che comportano un percorso attraverso l’alimentazione, l’economia domestica, l’amministrazione delle rendite feudali, i vestiti, i rapporti con le figlie, la corrispondenza, il lavoro manuale e la gestione di un opificio di filatura; ugualmente, possiamo introdurci nella cultura di questa donna, e per estensione delle donne del suo tempo e della sua classe; ma possiamo anche vedere il suo rapporto con altre donne delle classi popolari con cui manteneva contatti professionali.
Quando scrisse quello che lei intitolò Primer libro memorial, Sancha Ximenis era vedova da ventitrè anni: si era sposata nel 1408 con un figlio della contessa di Foix, Arquimbau de Grailly, con cui ebbe due figlie, e di cui rimase vedova dopo nove anni di matrimonio. Lasciò le terre del contado di Foix in data che non possiamo precisare, senza aver recuperato del tutto la dote che le dovevano; investì il suo denaro e il suo impegno nella cappella di Santa Chiara della cattedrale di Barcellona e nell’acquisizione e amministrazione dei diritti sulla valle di Osor che aveva comprato dal fratellastro Ramon de Cabrera. Morì vecchia, aveva un’ottantina d’anni, nel 1474; cioè visse da vedova per cinquantasette anni.
I moralisti sottolineano che la vedova doveva distinguersi per l’austerità del vestire e per la diligenza. Dice san Gerolamo: la vedovanza non si deve mostrare solo nei vestiti neri e ampi, ma anche in qualsiasi ornamento... Oh, che cosa avrebbe detto san Gerolamo di questi tempi se avesse visto le nostre vedove abbigliate alla castigliana, dipinte nel volto... nelle loro case non si fanno mai i mestieri, o pochi, ma dal letto alla tavola e dalla tavola alla finestra. Evidentemente, non è il nostro caso: nei suoi libri di contabillità difficilmente si citano vestiti, con l’eccezione di un considerevole numero di veli; in casa di Sancha, come vedremo, c’era lavoro, e non poco.
Francesc Eiximenis, Lo libre de les dones, cap. 97, Barcellona, Universidad de Barcellona, 1981, p.148.
Nonostante quello che ci dice Eiximenis, la situazione delle vedove in Catalogna era notevolmente peggiorata a partire dal XIV secolo; le nuove leggi, come la Recognoverunt Proceres (1284) e quelle approvate alle Cortes di Perpiñán del 1351, che raccolgono la tradizione del diritto romano, riducevano i diritti delle donne e incidevano sulla vita delle vedove, che perdevano l’usufrutto vitalizio riconosciuto dal diritto precedente ed erano lasciate alla mercè della dote, se la potevano recuperare, cosa che in certi casi non era facile, e della volontà del marito, che poteva lasciare la moglie ben provvista oppure letteralmente sulla strada, trascorso l’anno di lutto. Non vorrei approfondire l’aspetto della vedovanza, ci porterebbe fuori dal nostro tema centrale che è il mondo del lavoro; ma devo constatare che le vedove, per la loro peculiare situazione economica e legale, sono le donne il cui lavoro è più visibilmente documentato. Sono convinta che lavorassero tutte le donne, ma la loro partecipazione al mondo del lavoro rimane spesso più nascosta quando sono sposate. Tutte le donne collaboravano all’impresa familiare, che fosse il governo di un feudo o affari mercantili, lo sfruttamento agricolo o un opificio.
Questa collaborazione non era contemplata dagli statuti delle corporazioni, ci restano pochi contratti di lavoro di donne e il lavoro che facevano era riconsciuto in ben pochi casi. In ogni modo, abbiamo delle prove: alcune vedove si tenevano gli utensili del defunto marito, si dà per certo per continuare a lavorare, dato che conoscevano le tecniche del mestiere; questo parrebbe evidente nel caso delle vedove dei tessitori, dei sarti o di altri artigiani del vestire, ma anche le vedove di coloro che esercitavano mestieri che possono sembrarci lontani dai lavori che crediamo abitualmente esercitassero le donne, avevano interesse a tenersi qualche utensile dell’opificio. Così, per esempio, la moglie di un arrotino di Barcellona andava alle aste a comprare mole con i beni del defunto marito. O il caso estremamente interessante di Isabel, vedova di Genís Solsona, farmacista di Barcellona, morto nel 1445, che riceveva come legato testamentario del suo defunto marito un frantoio con tutti gli attrezzi necessari per la produzione di amido, che era il lavoro che lei svolgeva abitualmente nel laboratorio e di cui era un’esperta professionista.
Vinyoles, Teresa, “La casa i l’obrador d’un esmolet de Barcelona a finals del segle XIV”. Cuadernos de Historia Económica de Cataluña, n. 15. Barcellona, 1976, pp.9-49.
Comas, Mireia, “Una adroguera barcelonina del segle XV: Isabel, vídua de Genís Solsona”.
Una volta morto il marito, sembrerebbe che la vedova potesse agire da sé, ma a volte non era così, la povertà impediva a molte vedove di fare qualsiasi cosa se non sopravvivere; in particolare le vedove anziane e senza figli erano le meno protette. Troviamo anche vedove giovani che devono sostenere innumerevoli cause per riuscire a recuperare la dote, e altre che sono controllate dalla famiglia o dagli eredi del marito, o altre separate dai loro figli e figlie dato che il marito non le aveva lasciate come tutrici. Di fatto, la società esercitava un controllo sulle vedove, ma evidentemente più distante da quello che il padre poteva esercitare sulle figlie o il marito sulla moglie.
Durante la sua lunga vedovanza, Sancha Ximenis dovette affrontare circostanze avverse. Comunque, all’epoca del testo di cui parliamo, il decennio 1440, quando aveva meno di cinquant’anni, la troviamo piena di energia, lucida, saggia, prudente, decisa, ostinata e attiva, essenzialmente molto attiva.
Viveva abitualmente a Barcellona con un piccolo gruppo di domestiche e domestici; ma si recava spesso nelle terre di Girona dove aveva i suoi domini e dove vivevano altri membri della famiglia Cabrera. Risulta con molta chiarezza che lei personalmente andava a fare i conti e a riscuotere i suoi diritti e inoltre che era lei stessa ad annotarli nel suo libro contabile: Oggi, che è mercoledì, che siamo al 18 del mese di aprile dell’anno 1442, nel castello di Verges io, Sancha Ximenis de Foix y de Cabrera, signora del Valle de Osor, sono venuta a fare i conti. E ho fatto i conti con Pedro Sobirà, luogotenente del podestà di detta valle. Fa i conti delle entrate: riceveva parte dei censi in denaro e il resto in cereali e legumi, che non riscuoteva in specie bensì per l’importo della vendita una volta venduti; riceveva anche diritti sul vino, sulla carne, sulla canapa e su altri prodotti; ugualmente riceveva alcune cose in specie, come le castagne.
Come signora della valle, Sancha Ximenis riscuoteva riscatti e altri diritti banali, risultano vari tipi di entrate. Possiamo citare il riscatto di un uomo che destina a questo la somma piuttosto elevata di 43 soldi; invece la figlia di un contadino si riscatta per la somma minima prevista dalla legge in caso di riscatto di giovani vergini che andavano via dalla masseria per sposarsi, 2 soldi e 8 denari, anche se non lo riscuote tutto la signora dato che 3 denari saranno per il salario del podestà. Diversamente, per entrare in una masseria una donna paga 25 soldi. Se teniamo conto del fatto che è probabile che la ragazza si riscattasse dalla masseria del padre per andare a vivere nella masseria del marito, sommando la dote, il vestito da sposa e altre spese, un matrimonio in campagna era piuttosto caro per il potere d’acquisto dei contadini del XV secolo.
Dicevamo prima di una certa precarietà nei riferimenti ai vestiti: in generale le spese di Sancha sono austere. Sembra avere solo tre debolezze: la cappella della cattedrale, la difesa dei suoi diritti per i quali impiega denaro ed energie, e i regali alle figlie che vivevano a Bearn.
Sancha Ximenis apparteneva alle classi privilegiate, e questo comportava tra le altre cose l’accesso alla cultura scritta. Sancha era una donna istruita che portava avanti personalmente la sua contabilità e un’attiva corrispondenza di cui disgraziatamente ci è rimasto ben poco. Nel testo che commentiamo lei stessa ci dice che scriveva e mandava lettere e che ne riceveva e vi rispondeva: scriveva alle figlie, o a persone loro vicine, ad altri membri della famiglia, a diverse autorità, sia religiose sia civili, soprattutto scriveva per reclamare i suoi diritti o i diritti delle sue figlie.
Abbiamo pubblicato alcune lettere in: Vinyoles, Teresa, “Cartes de dones del segle XV, notes sobre la crisi feudal”. Acta Mediaevalia, 2002. Ne trascriviamo qui una, mandata da Violante de Rec, donna proveniente dalla classe contadina benestante di Osor, a Sancha Ximenis su una spedizione di filo di canapa:
Molto egregia signora e mia cara padrona. Innanzitutto mi raccomando alla vostra grazia e mercè. Signora, vi invio 19 libbre di filo di fibra di canapa in 58 matasse, le quali vi invio. Ho tardato tanto a mandarvi la fibra in attesa che la stoppa fosse filata, e ho aspettato finché non ne fosse filata più della metà. La Ferrera mi ha dato 22 libbre di filo grezzo, e dopo la cottura è stato restituito in 19 libbre. Signora, madonna, Vilanova, Bernardo Guillem e la vostra figlioccia, benché sia ancora tanto piccola, si raccomandano alla vostra grazia e mercè. Spero che vi piaccia tenermi la federa in cui c’è il filo. Signora mi raccomando alla vostra grazia e mercè. Violante de Vilanova.
[Sul retro] Alla molto egregia signora e mia cara padrona, la signora donna Sancha de Foix y de Cabrera, a Barcellona.
Non posso identificare con sicurezza queste persone, ma posso supporre che madonna potrebbe essere Isabel de Cabrera, o la madre o la suocera della mittente; Vilanova è senza dubbio il marito di Violante e Bernardo Guillem e la figlioccia di Sancha sarebbero il figlio e la figlia della coppia Vilanova-Rec.
Il testo che commentiamo contiene in buona parte la contabilità domestica. Sancha era una padrona di casa e si occupava del buon governo e dell’amministrazione della casa: tra le altre cose, del cibo quotidiano, delle spese ordinarie come il pane e di quelle straordinarie come il pranzo delle feste. Per quanto riguarda il pane, che è l’alimento di base, si occupava di tutto il processo di elaborazione: comprava il grano, normalmente per mezzo di un chierico al suo servizio, pensiamo allo scopo di risparmiare qualche tassa, e lo faceva mondare e macinare, pagando sia il lavoro del mugnaio sia quello del facchino e l’aggiunta o imposta dovuta. Il pane lo impastavano in casa, molto probabilmente lo faceva qualche domestica, e poi lo si portava a cuocere al forno: per l’infornata pagava alla panettiera. Lo annota in modo minuzioso: Cominciammo a impastare tale farina il giovedì 7 novembre. Il sabato 7 dicembre pagai a Maria, la panettiera, per cuocere il pane.
Si prendeva cura dei vestiti e della biancheria, annotava puntualmente la lista della lavandaia, cioè tutti i capi che si mandavano a lavare fuori casa e che si davano in mano a una professionista affinché li restituisse puliti. Spesso possiamo leggere: Memoriale di roba che si è lavata fuori casa. Era biancheria, lenzuola, tovaglie, asciugamani, tovaglioli, panni, tende...
Normalmente non ci sono spese superflue, gli oggetti e le cose che si rompono li faceva aggiustare, così si rammenda un materasso di lana o dei tappeti. Nella casa si allevavano galline e si preparavano confetture, soprattutto cotognata, per cui si comperavano le mele cotogne e il miele.
Per le feste di Natale, in casa di Sancha Ximenis e supponiamo in molte case più o meno agiate del tempo si preparavano torroni e angelets, che credo fossero cialde, e il vino speziato o il vino bianco al miele e cannella. Insieme alla sua fedele collaboratrice, Sancha elaborava i torroni per il Natale del 1440, e annotava nel suo libro una settimana prima delle feste: per torroni con semi di sesamo, e che fece madonna Constanza, 4 libbre di miele, 4 libbre di nocciole tostate, e una libbra di semi di sesamo. Regalava torroni ad alcune donne della famiglia e celebrava la festa del “piccolo vescovo” per i ragazzi della sua cerchia o che erano al suo servizio.
Ciò che possiamo trovare più sorprendente nel libro dei conti di Sancha Ximenis sono le pagine dedicate alla sua attività professionale. Letto attentamente il libro, arriviamo alla conclusione che gestiva un opificio di filatura, in cui lavorava lei stessa e altre quattro o cinque donne. In primo luogo dovremmo citare madonna Constanza, la sua principale collaboratrice durante quegli anni e donna di fiducia; poi c’era Juliana, la castigliana, e Esperanza, la Magarola risulta come filatrice e anche come cucitrice. Aveva al suo servizio la Servalls che molto probabilmente lavorava nell’opificio e che inoltre faceva commissioni fuori casa.
Filavano tutte insieme, Sancha annotava nel libro le matasse filate da ciascuna di loro e il peso del filo. E fa risultare che lei filava e poi annotava con la sua scrittura filato da me, Sancha Ximenis. Dopo faceva candeggiare il filo: la Berala, candeggiatrice di filo, era colei che abitualmente si faceva carico di questo lavoro per cui riscuoteva tre soldi la libbra; questa professionista riceveva il filo grezzo e doveva sottoporlo a una serie di operazioni per togliergli le impurità che aveva di natura e che gli davano una certa tonalità, in modo che rimanesse bianco, e nel corso di questo processo il filo perdeva peso. Perciò Sancha Ximenis pesava le matasse di filato prima e dopo il candeggio.
Una volta compiuta questa operazione, si portava il filo alla tessitura: l’incarico veniva dato soprattutto a tessitrici di mestiere, anche a qualche tessitore ma nella maggior parte dei casi sono donne tessitrici quelle che lavoravano per Sancha: Aldonça, moglie di Gabriel Bofill; Catalina la Aragonesa, la Creixells, la Seguera o la Cortadella, tessitrice della via del Carmen di Barcellona; sarebbero tessitrici di veli o tessitrici di lino.
Quando si recava nelle terre di Girona per fare i conti dei suoi domini, potremmo pensare che interrompesse la sua attività e la routine quotidiana; ma non era così, l’accompagnavano le donne della casa e si portavano dietro il lavoro e continuavano a filare: mercoledì 26 settembre chiesi a Torruella -sicuramente da Osor dove era andata a fare i conti con il podestà- che mi mandassero a Barcellona presso Bofill 33 matasse di filo, 10 matasse erano filate dalle mani di madonna Constanza e le altre 22 da tutte noi. Potrebbe essere filo da far tessere a Aldonça, moglie di Gabriel Bofill.
Quando annota tutte le sue spese menziona anche una negoziante, Margarita Esiberta, da cui ha fatto alcuni acquisti; Maria la panettiera che le infornava il pane; le lavandaie Maria e Salvadora che si portavano via la roba da lavare fuori casa.
Questo ambiente di scambi e di relazioni andava oltre le pareti di casa. Sancha, verso settembre del 1440, annotava minuziosamente la ricetta per conservare le melanzane, così possiamo seguirne il procedimento passo passo. Penso che potrebbe aver ricevuto la ricetta oralmente da qualche contadina e lei, donna istruita, la mise per iscritto, diventando un anello di trasmissione di cultura femminile.
Sancha Ximenis mise anche per iscritto di suo pugno e con parole sue le sue ricette per tingere tessuti fini, lavare la seta, togliere le macchie o curare il malocchio (Llibre del servidor, fol. 57v. per treure taques dels draps fetes de tinta, prenets suc de taronges o de lima o de limona fregats-la e puis levats ho a aygua…).
Ugualmente, nel libro di contabilità che abbiamo esaminato copiava un’orazione per il mal di gola, in un altro dei suoi libri inserisce anche una formula magica contro i vermi intestinali. In questo mondo femminile entra anche la canzone, la poesia cantata. Oggi sembra che possiamo immaginare un gruppo di donne che lavorano insieme e non cantano, ma io le immagino che filano e cantano insieme, e credo che dovrebbe essere così. Per questo Sancha copiava in una parte di pagina che avanzava tra i conti una ballata: En mi corazón amo a una señora. Os quiero tanto señora mía, que no os lo podría demostrar nunca.
Con questo testo, scritto con una finalità eminentemente pratica, un libro di contabilità, si può fare un ripasso dei saperi che nascevano dalla pratica, dall’esperienza; cioè dal lavoro, dall’apprendistato, dal magistero, che sempre partono e si sviluppano in relazione. Possiamo parlare dell’approvvigionamento, della cucina, della conservazione dei cibi, della confezione e cura dei vestiti, della celebrazione rituale delle feste, della medicina casalinga, della preoccupazione per le figlie e i figli, di tutto un insieme di sapienza popolare, sapienza femminile, pratiche di relazione, cura dell’altro e cura delle cose al servizio degli altri.
È un riconoscimento dei lavori femminili, di quelli retribuiti, generalmente mal retribuiti, e di quelli non retribuiti; di quelli riconosciuti, normalmente riconosciuti solo a metà, e di quelli passati sotto silenzio. È un modo di avvicinarci all’altra cultura, che correva -e corre ancora- parallela alla cultura dominante, e che era in mano alle donne e si trasmetteva da una donna all’altra.
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Teresa Vinyoles VidalTeresa Vinyoles Vidal è nata a Barcellona nel 1942; sposata con due figli e due figlie, è docente titolare di Storia medievale all’Università di Barcellona e fa parte del Centro Duoda di tale università dalla sua fondazione. Tra le sue linee di ricerca ci sono lo studio delle donne, a cui si è dedicata dal 1969, e quello della vita quotidiana nell’epoca medievale; coordina un progetto di ricerca sulla didattica della storia. Tra i suoi lavori: Les barcelonines a les darreries de l’edat mitjana (Barcellona, Fundació Vives Casajuana, 1976); La vida quotidiana a Barcelona vers 1400 (Barcellona, Fundació Vives Casajuana, 1985); Mirada a la Barcelona medieval des de les finestres gòtiques (Barcellona, Dalmau, 2002); Presència de les dones a la Catalunya medieval (Vic, Eumo, 2004). E numerosi articoli sulla storia delle donne, tra i quali: Petita biografia d’una expòsita barcelonina del segle XV (Barcellona, CSIC, 1989 p 255-272); L’amor i la mort al segle XIV, cartes de dones (“Miscel·lania de textos medievals” 8, Barcellona, CSIC, 1996, p. 111-198), e Las mujeres del año mil (“Aragón en la Edad Media” XVII, 2003, pp.5-26). |
Figlio di Borrell, conte di Barcellona.
Sua madre fu Timbor de Prades – figlia del conte Joan de Prades e di Sancha Ximenis de Arenós-, suo padre fu Bernat IV, visconte di Cabrera e di Bas, conte di Módica e di Osona, fu cugina prima della regina Margarita de Prades, seconda moglie di Martín el Humano. Il primo documento in cui la si nomina è il testamento della madre, del 1397. Il padre la sposò con Arquimbau de Foix, figlio della contessa Elisabet de Foix e di Arquimbau de Grailly, nel 1408; ricevette come dono di nozze la baronia di Novalles. Fu madre di due figlie, Isabel e Juana; diventò vedova nel 1417, ciò vuol dire che Sancha fu sposata per un massimo di nove anni. Vedova da giovane, sopravvisse ampiamente al marito e anche alle figlie; era una vedova della nobiltà, ma lontana dalla corte. Visse momenti difficili: la sollevazione remença (imposta di riscatto), la guerra civile, e gravi problemi economici. Firmò il testamento il giorno 1° febbraio 1471, con il notaio di Barcellona Bartolomé de Requesens, designando eredi universali l’Hospital de la Santa Cruz e la Pía Almoina. Sancha Ximenis morì il 25 novembre 1474, festività di Santa Caterina, dopo più di due anni di malattia.