Nella storia e nella politica correnti, c’è un’immagine molto comune per interpretare e spiegare le differenze evidenti tra l’esperienza umana femminile e quella maschile. È l’immagine della “sfera pubblica e sfera privata”. Si dice che la storia e la politica degli uomini si svolgano nella sfera pubblica, la più visibile e importante, mentre quella delle donne resterebbe ridotta alla relativa invisibilità del privato. Questa immagine continua a essere usata oggi acriticamente, nonostante il fatto che le donne sono presenti in tutti i posti della cosiddetta sfera pubblica in cui desiderano esserci; e nonostante il fatto che ormai molti anni fa - nel 1935 - la grande antropologa Margaret Mead scrisse con ironia: “Qualunque cosa facciano gli uomini, anche fosse vestire pupazzi per una cerimonia, appare dotato di maggior valore”. Con questa frase, Margaret Mead mise in ridicolo la pretesa importanza del pubblico, indicando che ciò a cui si dava rilevanza era, in realtà, ciò che gli uomini facevano, qualunque cosa questo fosse.
Cit. in María-Milagros Rivera Garretas, Nominare il mondo al femminile. Pensiero delle donne e teoria feminista, a cura di Emma Scaramuzza, Roma, Editori Riuniti, 1998.
Per cercare di capire bene quali siano gli interessi che sostengono la dicotomia o antinomia pubblico/privato, la storica Gerda Lerner ne studiò le origini, e scoprì che questa antinomia del pensiero esiste dalle origini del patriarcato, perché è funzionale ad esso. Vuol dire che questa immagine esplicativa della storia e della politica è meno al servizio della verità di quanto non lo sia dell’interesse di alcuni - e, in qualche caso, di alcune - a sostenere questo sistema storico di dominio degli uomini sulle donne. La Lerner dimostrò che per il patriarcato è stata fondamentale la divisione delle donne in private e pubbliche, essendo queste ultime le prostitute: donne che, come tanti uomini pubblici anche se moltissimo meno liberamente di loro, scambiano essere per denaro.
Gerda Lerner, The Creation of Patriarchy, Nueva York e Oxford, Oxford University Press, 1986. Gerda Lerner ha definito il patriarcato come “la manifestazione e istituzionalizzazione del dominio maschile sulle donne e sulle bambine e i bambini nella famiglia, e l’estensione del dominio maschile alla società in generale” (The Creation of Patriarchy, 239).
Un articolo molto interessante sulla prostituzione - una questione che tormenta il nostro mondo presente nella sua globalità - è La prostituzione, una caricatura, in Luisa Muraro, La folla nel cuore, a cura di Clara Jourdan, Milano, Pratiche, 2000, 129-131.
Come siamo state divise, noi donne, in private e pubbliche? Carole Pateman, nella sua tesi di dottorato intitolata Il contratto sessuale, scoprì che alla base delle società patriarcali c’è stato o c’è un patto fondativo che è, in realtà, anteriore a quello che finora si credeva fondare le società umane e che nel XVIII secolo Jean-Jacques Rousseau denominò “il contratto sociale”. Il vero patto fondativo era il contratto sessuale, che consiste in un patto non pacifico tra uomini eterosessuali per distribuire tra loro l’accesso al corpo femminile fecondo.
Carole Pateman, Il contratto sessuale, trad. italiana di Cristina Biasini, Roma, Editori Riuniti, 1997.
È per questo che nei rapporti sociali patriarcali le donne entrano con una zavorra che genera disuguaglianza. Ma per fortuna il patriarcato non ha mai occupato la realtà intera e neppure la vita intera di una donna. Perché il sociale è discontinuo, non è sinonimo di storico ma si riferisce a una parte di ciò che è storico, quella parte che è controllata dai rapporti di potere e dominio. Per questo nel secolo XIX G.W.F. Hegel potè scrivere che “il femminile è l’eterna ironia della comunità”. Questo vuol dire che il femminile che eccede e deborda dal patriarcato ne mette in ridicolo la pretesa universalità.
Tra le molte persone che hanno citato questa frase, scelgo Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel. La donna clitoridea e la donna vaginale e altri scritti, Milano, Scritti di Rivolta Femminile, 1974.
La dicotomia pubblico/privato aiuta, dunque, a spiegare una parte della storia delle donne -cioè, della storia: questa parte è il loro sfruttamento operato dagli uomini, la loro sofferenza, la loro rabbia rispetto agli stereotipi di genere femminile, conseguenza tutto ciò della disuguaglianza tra i sessi. Ma non serve per spiegare veramente l’esperienza umana femminile nel suo insieme, nella sua unità non segmentabile.
La dicotomia pubblico/privato è stata spezzata dal movimento politico delle donne dell’ultimo terzo del XX secolo con un grido ripetuto instancabilmente nei gruppi di autocoscienza, sui volantini, nelle pubblicazioni, per la strada...: “il personale è politico”. Venne spezzata perché è una dicotomia che perseguita, implacabile, la vita delle donne, nonostante il fatto che le donne si riconoscano ben poco in essa. Perché noi donne giriamo liberamente e senza gerarchie di valore tra i due poli della dicotomia, tra la casa e la strada, tra il tavolo di cucina – su cui alcune hanno scritto capolavori - e l’università, tra un amore e l’altro, tra il giardino e l’amministrazione dello Stato. In realtà, la parousía genuina, la vera apparizione pubblica dell’essere umano, non è propriamente quella della televisione o delle copertine delle riviste, ma è quella che ciascuna bambina o ciascun bambino fa quando esce dal corpo di sua madre al momento della nascita, irrompendo nel mondo.
È molto interessante notare come l’invenzione simbolica “il personale è politico” non si sia limitata a invertire la vecchia dicotomia dicendo “il privato è pubblico”. Per questo è una autentica scoperta di senso: non si limita a invertire i termini dell’antinomia, come farebbe una rivoluzione, ma si colloca in un luogo che è oltre, quasi imprevisto, il luogo della libertà.
Il personale non è, tuttavia, immediatamente politico: in ogni circostanza storica è necessario trovare le mediazioni che facciano del personale qualcosa di politico. I reality show, per esempio, pur essendo sfacciatamente personali, hanno poco o pochissimo senso politico, per cui bisogna ripeterli fino alla nausea, come se in essi si cercasse disperatamente qualcosa che il nostro mondo richiede e non trova. Quello che cerchiamo è proprio la mediazione che faccia del personale qualcosa di politico qui e ora, nel contesto relazionale presente. È questa mediazione -o mediazioni- ciò che ci rende libere, rompendo il terribile meccanismo della ripetizione.
Una mediazione è qualcosa che mette in relazione due cose che prima non lo erano. Come fa il tramezzo (entredós), guarnizione di merletto che unisce due pezzi di tessuto prima separati, creando così qualcosa di nuovo. I testi che ho presentato della marchesa Dhuoda, della canonichessa Rosvita di Gandersheim e della regina Isabella I di Castiglia sono esempi di mediazioni storiche che, ciascuna nel proprio contesto relazionale concreto, riuscirono a fare del personale qualcosa di politico.
Dhuoda trovò nella scrittura di un libro per l’educazione dei suoi figli Guglielmo e Bernardo la mediazione che la mise di nuovo in relazione con i bambini, quando le furono strappati dal padre, che se li portò alla corte carolingia per servirsi di loro nelle sue lotte di potere. In questo modo, il libro mediò tra lei e la corte imperiale, tra il suo amore più intimo e personale e ciò che gli uomini della sua classe sociale - l’aristocrazia - intendevano per politico. Dando così alla politica un altro tono e un altro senso: un senso amoroso, non violento. Dhuoda scrive come una madre che mostra ai suoi figli, tra metafore di giochi di dadi e di specchi, un esempio da seguire che ha come nucleo la cura della relazione, della spiritualità e della vita, non la guerra. L’esempio che Dhuoda propone ai suoi figli è una istanza di un’altra politica, politica che nel femminismo alcune o molte chiamano la politica delle donne.
Rosvita, con l’ironia di cui fu maestra, mette allo scoperto, nel X secolo, l’indole profonda del patriarcato e del contratto sessuale che lo sostiene: l’imperatore Adriano riconosce molto seriamente - mentre l’autrice, esperta nella risata, ride di lui - che lo Stato è in pericolo se le donne sposate disprezzano i loro mariti al punto da rifiutarsi di mangiare con loro e di coricarsi nel loro letto; cioè se le sposate si liberano della eterosessualità obbligatoria (non di quella libera, che comunque esiste). La mediazione trovata da Rosvita per fare di quanto c’è di più personale nel rapporto donna-uomo qualcosa di politico, è la parola, la parola predicata, detta forte e a viva voce per le strade, la parola adatta e necessaria in quel momento storico, essendo la strada lo spazio pubblico e comune per antonomasia.
La preoccupazione di Isabella I per la salute della sua consigliera e dama di servizio Juana de Mendoza fa sì che irrompa nella Storia il mondo delle corti femminili del XV secolo. Queste corti o case reali si muovevano in un regime di scambi proprio; un regime di scambi che era quello del dono, ben poco misurato o significato dal denaro. Le dame della corte non ricevevano abitualmente salari in denaro, come i cavalieri della corte, ma ricevevano regali dalla regina: regali in forma di tessuti, per esempio, o di gioielli, abiti, libri d’ore o altri oggetti di valore. Questo regime di scambi favoriva l’attenzione a ogni singola relazione e aveva bisogno della fiducia. Pertanto l’ambiente assomigliava molto ai rapporti che si stabiliscono in casa, nel privato. Ma allo stesso tempo tutto ciò che accadeva nella corte aveva una grande importanza politica. La medievista Bethany Aram ha anche mostrato, in uno splendido libro dedicato a La reina Juana -un libro che è, finalmente, un’opera storica e non leggendaria sulla cosiddetta Giovanna la Pazza -, che le case reali o corti dei secoli XV e XVI furono il principale significante della capacità di governare di una o un monarca: se la regina o la principessa non riusciva - come accadde a Giovanna I di Castiglia - a governare la sua casa (e suo marito Filippo il Bello finché visse glielo rese difficilissimo), questo voleva dire che il suo popolo non avrebbe avuto fiducia nella sua capacità di governare il paese. Il politico dipendeva, dunque, dal personale, il governo dello Stato dipendeva dal funzionamento della casa.
Bethany Aram, La reina Juana de Castilla. Madrid, Marcial Pons, 2001.
Quello che noi donne otteniamo quando troviamo le mediazioni perché il personale sia politico, è di stabilire rapporti di fiducia tra ciò che al momento è considerato politico e ciò ne restava fuori, ossia l’altro, l’alterità, o un suo frammento: alterità che irrompe, in primo luogo, nelle case e nella vita personale di una madre o, in minor misura, di un padre, quando una donna dà alla luce una creatura. Spesso l’altro è il femminile libero, che spinge per venire al mondo qualunque sia il contesto storico.
A volte, nella storia dell’Occidente, l’altro, l’alterità, si incarna in certi gruppi umani, che possono essere il popolo ebreo o saraceno o zingaro, per esempio. Oggi si incarna nelle straniere, negli stranieri immigrati. Rosvita rappresentò, nel X secolo, l’alterità come il femminile libero portato all’Impero romano da una donna straniera (advena mulier) chiamata Sapienza, che arriva a Roma con qualcosa di diverso da dire, e lo predica pubblicamente.
Può essere utile confrontare in classe il testo di Rosvita di Gandersheim in Sapientia con un brano dell’opera La tomba di Antigone, di María Zambrano (1904-1991). Entrambe - Antigone e María Zambrano - vissero nelle loro esperienze di vita da straniera o di esilio la terribile sofferenza di non poter dare, di non vedere accolto ciò che loro portavano ed erano; cioè sperimentarono la perdita di esistenza simbolica che la tolleranza comporta: perché la tolleranza rispetta democraticamente ma non accoglie, non si apre allo scambio amoroso. In altre parole, soffrirono nel vedersi trasformate, nel paese di arrivo, in un altro da cui non si vuole ricevere nulla, un altro a cui si nega, così, sostanza politica. Scrisse María Zambrano:
María Zambrano, La Tumba de Antígona, in Senderos, Barcellona, Anthropos, 1986, 199-265, pagg. 258-259 (La traduzione italiana è nostra [n. d. t.]).
"Come me, tutti in esilio senza rendersene conto hanno fondato una città dopo l’altra. Nessuna città è nata come un albero. Tutte sono state fondate un giorno da qualcuno che viene da lontano. Un re forse, un re-mendicante cacciato dalla sua patria e che nessun’altra patria vuole, come mio padre che andava guidato dai miei occhi che guardavano e guardavano senza scoprire la città del destino, dove ci aspettasse un posto per noi. E io, entrando in una città, sapevo già, per quanto pietosi fossero i suoi abitanti, per quanto benevolo fosse il sorriso del suo re, io sapevo bene che non ci avrebbero dato la chiave della nostra casa. Mai nessuno si è avvicinato dicendoci: “Questa è la chiave della vostra casa, non avete che da entrare”. C’è stata gente che ci ha aperto la porta e ci ha fatto sedere alla sua tavola, e ci ha offerto un’accoglienza affettuosa, e anche di più. Eravamo ospiti, invitati. E nemmeno siamo stati accolti in nessuna di esse come quello che eravamo, mendicanti, naufraghi che la tempesta getta su una spiaggia come un rifiuto, che è allo stesso tempo un tesoro. nessuno ha voluto sapere che cosa andassimo chiedendo. Credevano che andassimo chiedendo perché ci davano molte cose, ci colmavano di doni, ci coprivano, come per non vederci, con la loro generosità. Ma noi non chiedevamo questo, chiedevamo che ci lasciassero dare. perché portavamo qualcosa che lì, là, dovunque fosse, non avevano; qualcosa che non hanno gli abitanti di nessuna città, quelli che si sono stabiliti; qualcosa che ha solo chi è stato strappato alla radice, l’errante, chi si trova un giorno senza niente sotto il cielo e senza terra; chi ha sentito il peso del cielo senza terra che lo sostenga".
Dhuoda, Liber manualis. Secondo inizio (Incipit liber) del manoscritto ─il più fedele che abbiamo, c...
Copertina della rivista DUODA
Chiostro dell’abbazia femminile benedettina di San Emmeram a Regensburg o Ratisbona (Germania), seco...
Incisione che rappresenta Rosvita di Gandersheim nell’edizione del 1707 delle sue opere
Incisione della città di Gandersheim
Autografo della regina Isabella I di Castiglia (Valladolid, 9 gennaio 1481)
Vergine dell’Attesa o della O. Scultura, secoli XIII-XIV
Manifesto dell’installazione Entredós, di Elena del Rivero, geniale interpretazione della mediazione...
Manifesto dell’installazione Entredós, di Elena del Rivero, geniale interpretazione della mediazione...
Manifesto dell’installazione Entredós, di Elena del Rivero, geniale interpretazione della mediazione...
Manifesto dell’installazione Entredós, di Elena del Rivero, geniale interpretazione della mediazione...
Ritratto di Isabella I di Castiglia, rappresentata come Caterina d’Alessandria, regina, dopo la batt...
Pedro Marcuello consegna a Isabella I il suo Cancionero; alla sua destra, forse, la sua dama di serv...
Ritratto dell’infanta Giovanna (1479-1555), futura Giovanna I di Castiglia (1504-1555), figlia e suc...
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María-Milagros Rivera GarretasMaría-Milagros Rivera Garretas è nata a Bilbao nel 1947, sotto il segno del Sagittario. Ha una figlia nata a Barcellona nel 1975. È cattedratica di Storia Medievale all’Università di Barcellona, dove ha fondato con altre la rivista e il Centro di ricerca e studi delle donne Duoda, da lei diretti dal 1991 al 2001. Ha anche contribuito a fondare, nel 1991, la Llibreria Pròleg, la libreria delle donne di Barcellona, e nel 2002 la Fondazione Entredós di Madrid. Ha scritto: El priorato, la encomienda y la villa de Uclés en la Edad Media (1174-1310). Formación de un señorío de la Orden de Santiago (Madrid, CSIC, 1985); Textos y espacios de mujeres. Europa, siglos IV-XV (Barcellona, Icaria, 1990 e 1995; trad. tedesca, di Barbara Hinger, Orte und Worte von Fragüen, Vienna, Milena, 1994 e Monaco, Deutscher Taschenbuch Verlag, 1997); Nombrar el mundo en femenino. Pensamiento de las mujeres y teoría feminista (Barcellona, Icaria, 2003, 3ª ed.; trad. italiana di Emma Scaramuzza, Nominare il mondo al femminile, Roma, Editori Riuniti, 1998); El cuerpo indispensable. Significados del cuerpo de mujer (Madrid, horas y HORAS, 1996 e 2001); El fraude de la igualdad (Barcellona, Planeta, 1997 e Buenos Aires, Librería de Mujeres, 2002); e Mujeres en relación. Feminismo 1970-2000 (Barcellona, Icaria, 2001). |
Dhuoda fu una colta nobile franca di lingua materna germanica, nata verso l’803. Il 29 giugno 824 si sposò nella cappella palatina di Aquisgrana con Bernardo di Settimania, figlio di un cugino di Carlo Magno, diventando marchesa di Settimania e contessa di Barcellona, Girona, Ampurias e Rossiglione. Visse a Uzès, dove nacque il “desideratissimo” figlio Guglielmo, il 29 novembre 826; quasi quindici anni più tardi, il 22 marzo 841, nacque il figlio Bernardo. Poco dopo, il marito si portò via i due bambini, per usarli come ostaggi dei suoi interessi di potere. Per alleviare il dolore e contribuire a far sì che pensassero a lei e si educassero secondo il suo desiderio, Dhuoda scrisse per loro, in latino, un Libro manuale - ossia un libro da portare e tenere a portata di mano. Lo cominciò il 30 novembre 841 e lo terminò il 2 febbraio 843, senza sapere ancora che nome avevano dato al figlio piccolo.
Filippo il Bello (1478-1506), re dei Paesi Bassi (1482-1506) e re di Castiglia (1504-1506) per il suo matrimonio con Giovanna I di Castiglia. Figlio di Maria di Borgogna e di Massimiliano I, imperatore di Germania.
Giovanna I di Castiglia (1479-1555), regina di Castiglia, figlia di Isabella I di Castiglia e di Fernando d’Aragona. Alla morte dei fratelli Giovanni (1497) e Isabella (1498) e del figlio di questa, Miguel (1500), diventò l’erede di Castiglia e d’Aragona. Con il patto di Salamanca (1505) fu stabilito che Giovanna governasse congiuntamente con il marito Filippo il Bello e con il padre Fernando il Cattolico. Con il patto di Villafáfila (Zamora,1506) Fernando si ritirò nel regno d’Aragona, Filippo fu proclamato re di Castiglia e a Giovanna fu tolta la capacità di regnare. Alla morte di Fernando (1516), Carlo, figlio di Giovanna, prese il titolo di re. Legalmente però nei documenti doveva figurare prima il nome della regina e poi quello di Carlo. Morì a Tordesillas, dove viveva dal 1509.
Isabella I di Castiglia (22 aprile 1451-26 novembre 1504) è figlia del re di Castiglia Giovanni II (1406-1454) e di Isabella del Portogallo (m. 1496), regina di Castiglia (1447-54), seconda moglie di Giovanni II, madre di Isabella I di Castiglia e dell’infante Alfonso. La sua nascita è raccontata nei dettagli da una Cronistoria: “Nacque la santa regina cattolica donna Isabella a Madrigal, giovedì XXII aprile, IIII ore e due terzi dopo il mezzogiorno, anno Domini 1451 (Cronicón de Valladolid. Diario del Doctor Toledo, CODOIN [Colección de documentos inéditos de la historia de España], XIII, p. 20). Isabella nacque a Madrigal de las Altas Torres (Ávila) dove, nel 1447, si erano sposati i suoi genitori Giovanni II di Castiglia e Isabella del Portogallo. Nel 1468 suo fratello Enrico IV la riconobbe erede di Castiglia; un anno dopo (1469) si sposò in segreto, a Valladolid, con Fernando d’Aragona (1452-1516, figlio di Giovanna Enríquez e di Giovanni II d’Aragona) - futuro Fernando II (1479-1516), V di Castiglia (1474-1504) - rifiutando i candidati che suo fratello voleva imporle di sposare, Carlo di Valois o Alfonso V del Portogallo. L’unione con Fernando favorì gli interessi della corona aragonese, da una parte, ma dall’altra obbediva anche al fatto che Isabella lo considerava il miglior appoggio per l’ascesa al trono e per rafforzare la propria autorità. Sempre a Madrigal Isabella riceve il favoloso dono di fidanzamento di Fernando d’Aragona, una grande collana d’oro, rubini e perle ovali, che era stata della regina d’Aragona Giovanna Enríquez. (È innegabile la bellezza e l’importanza di questo gioiello, simile forse a quello che appare nella tavola del Maestro de Manzanillo, che raccoglie l’immagine dei re, Isabella e Fernando, poco dopo le nozze.) Per un matrimonio tanto importante come quello di Isabella di Castiglia e Fernando d’Aragona dovevano essere specificati in modo chiaro i diritti di entrambi, e così fecero nei capitolati o contratto matrimoniale che stipulano prima del matrimonio e ratificano più tardi nel patto di Segovia del 1475. Ma la vita di Isabella era già cambiata e continuava a cambiare profondamente. Così, nel 1474, alla morte di Enrico IV, Isabella si proclama regina di Castiglia. Anche se non tutti i gruppi sociali sostengono la nuova regina: una parte della nobiltà, con l’appoggio del Portogallo, riconosce come erede al trono Giovanna la Beltraneja (1462-1530, figlia di Giovanna del Portogallo e di Enrico IV di Castiglia, ma alcuni la consideravano figlia di Beltrán de la Cueva), e questo provocò la guerra civile in Castiglia. La vittoria di Toro (1476) prima, e le Cortes di Madrigal (1476) dopo, riconobbero Isabella regina. Da allora Isabella e Fernando si sforzarono di sottomettere i focolai di ribellione che in pratica si estinsero solo con la sconfitta dei portoghesi ad Albuera (1479). Tra gli avvenimenti che segnarono profondamente la sua vita ci furono senza dubbio le nascite della figlia Isabella (1470-1498) - che si sposò con l’infante Alfonso del Portogallo, rimase vedova e si dedicò alla vita spirituale come beghina, finché si risposò con il re Manuel del Portogallo -, del figlio, l’infante, Giovanni (1478-1497) e delle figlie Giovanna (1479-1555), Maria (1482-1517?) - che si sposò con il cognato Manuel del Portogallo -, e Caterina (1485-1536) - che si sposò con i principi di Galles Enrico, Arturo ed Edoardo.
Juana de Mendoza (m. 1493) fu amica, consigliera e dama di servizio di Isabella la Cattolica e della principessa Isabella del Portogallo, così come precettora dei nobili educati alla corte di Castiglia.
Rosvita nacque verso il 935, in una famiglia nobile della Sassonia (Germania), forse imparentata con la casa reale di Sassonia. Ricevette una eccellente educazione. Fu canonichessa presso l’abbazia di Gandersheim e potè disporre della sua biblioteca, straordinariamente ricca. È la prima autrice e il primo autore di teatro in Europa. Di lei conserviamo un ciclo di sei commedie - audaci e divertenti -, un ciclo di otto leggende - entrambi i cicli con protagonismo soprattutto femminile - e due opere di storia: una biografia dell’imperatore Ottone I e una storia delle origini di Gandersheim, il tutto scritto in latino. Morì dopo il 973. Durante gli ultimi anni della sua vita o poco dopo la morte fu copiato l’unico manoscritto delle sue opere che sembra completo, nell’abbazia femminile di San Emmeram, a Regensburg/Ratisbona. Il teatro di Rosvita fu presto tradotto in altre lingue e continua a essere rappresentato anche oggi.