Chi è un’autrice? Apparentemente, è una domanda a cui è facile rispondere: un’autrice, o un autore, è chi ha scritto un testo. Ma la questione può complicarsi un po’ se teniamo conto, per esempio, del fatto che chi scrive un testo non necessariamente ha pensato le parole che usa; forse semplicemente trascrive quello che ha sentito dire da altri, mettendoci o no farina del suo sacco. C’è anche chi scrive testi che l’una o l’altra gli dettano, e in fedeltà o no a ciò che gli viene detto. Altri copiano tranquillamente testi scritti da altre mani, dicendolo o senza dirlo. Nel caso in cui non lo dicono, oggi riteniamo che commettano plagio, che mentano attribuendosi ciò che l’una o l’altra ha scritto prima. E se lo dicono, riteniamo che la loro funzione sia stata quella di compilare, far conoscere o diffondere mediante un testo saperi e pensieri altrui, riuniti e ordinati forse in altro modo; una funzione che può diventare molto importante e originale. Ci sono anche persone che producono testi che usurpano saperi pensati o elaborati da altre ma che non erano mai stati scritti prima. L’autorialità, dunque, è in rapporto all’elaborazione di testi, ma è un concetto molto ricco di sfumature. Un’autrice, o un autore, può essere qualcuno che non ha mai scritto direttamente nulla, ma che ha fatto sì che un’altra persona mettesse per iscritto le cose pensate da lei.
Oggi l’autorialità di testi è una forma privilegiata di riconoscimento della capacità di qualcuno di iscrivere nel mondo quello che si considera significativo o nuovo. Abitualmente si ritiene che questa sia una capacità individuale, attribuita o idealmente attribuibile a una persona che, con il suo sesso e il suo nome, è considerata origine dei saperi, pensieri, rappresentazioni e sentimenti che in un testo si plasmano in parola scritta. Spesso questo viene interpretato nel senso che l’attribuzione individuale di autorialità di un testo doti di autorità il suo autore o la sua autrice, riconosciuta allora come causa o origine di un testo. Cioè, un testo firmato con un nome, dà autorità a quella persona. È proprio per questo che la storiografia delle donne ha dedicato così tanti sforzi al recupero di autrici individuali di testi, nell’intento di restituire autorità alle donne. Restituire, perché in molte occasioni era stata prevalentemente usurpata: sono molti i casi in cui si è cercato di negare che una donna avesse scritto un testo, specialmente se questo era riconosciuto come importante. Come dice Luce Irigaray, le culture patriarcali si fondano simbolicamente sull’uccisione della madre: da qui il valore politico dell’affermare la genealogia materna. La storiografia delle donne ha voluto rendere visibile l’autorità femminile mediante il riconoscimento alle donne di essere state produttrici di testi, di essere state autrici.
Nel medioevo l’autorialità individuale non era valorizzata nella stessa misura in cui lo è stata nelle società moderne. È per questo che comprendere come nel medioevo si producevano i meccanismi che portavano all’iscrizione di significati in testi ci aiuta a percorrere la complessità e la ricchezza di sfumature del concetto di autorialità che c’è al giorno d’oggi. Di fatto, nel medioevo la questione dell’autorità e dell’autorialità funzionava al contrario rispetto al mondo moderno: era il riconoscimento di autorità che creava l’autorialità, in un processo in cui l’origine e/o la fonte del sapere poteva essere completamente assente dalla produzione stessa del testo. Così, conosciamo il pensiero sottile e complesso di alcuni intellettuali attraverso gli appunti che i loro studenti prendevano ascoltandone le lezioni nei corsi universitari. E soprattutto abbiamo il grande esempio dei Vangeli: il testo del sapere per eccellenza, un testo dal quale Gesù è assente come autore, benché appaia la sua autorità, previamente riconosciuta, come quella che lo genera. Spesso, inoltre, i testi medievali ci si presentano senza nome, senza attribuzione di autorialità, cioè non erano firmati dall’autrice o autore, e chi poi li copiava non necessariamente registrava chi era all’origine della sua elaborazione. Questo anonimato non sembra togliesse autorità ai testi medievali; l’autorità di un testo senza firma e senza attribuzione di autorialità non veniva meno per chi allora lo ascoltava o leggeva.
Nel medioevo l’importanza della relazione nell’autorialità è ben visibile. Non solo perché i matrocini o i rapporti di patronato svolgevano una funzione diretta importantissima nella produzione di testi. Anche altre caratteristiche della cultura medievale facevano sì che la relazione avesse un’importanza fondamentale nel processo di scrittura. Due specialmente. In primo luogo, il fatto che si trattasse di una cultura manoscritta, una cultura in cui pertanto i testi rimanevano aperti all’intervento silenzioso di editrici e copisti/e, di modo che sembrava difficile fissare un testo scritto da parte della sua autrice o del suo autore. D’altra parte, quella medievale era una cultura in cui l’oralità giocava un ruolo fondamentale non solo nella trasmissione dei testi ma propriamente nella loro genesi. I molti testi dialogati o in forma di dialogo che si sono conservati (tra essi La città delle dame di Christine de Pizan) sono una prova esplicita dell’importanza della relazione nel processo di elaborazione di un testo. Riconoscere l’azione autorizzatrice dell’altro non implica necessariamente la negazione del proprio io: Christine de Pizan scrive in prima persona, ma la sua scrittura è rappresentata come una richiesta e un prodotto di relazioni che l’autorizzano. Un io che può anche essere riconosciuto come tale attraverso il riconoscimento di autorità dell’altra: è Aldonça de Montsoriu, l’editrice della Vita Christi di Isabel de Villena, a mettere per iscritto l’autorialità di Isabel, che pare non abbia firmato il suo testo. In questo modo la rende letteralmente autrice, anche se le compagne della comunità e prime destinatarie del testo avevano sempre saputo che l’autrice era Isabel.
La Crònica de Sant Pere de les Puel·les è un racconto redatto in catalano probabilmente alla fine del XIII secolo, anche se le versioni che conosciamo oggi sono della seconda metà del XIV secolo. Espone una supposta fondazione carolingia del monastero e gli effetti sulla vita monastica della razzia di al-Mansur, una razzia che oggi sappiamo essere avvenuta nel 985, benché le date offerte dalla cronaca siano altre e non possiamo dar loro credibilità storica. Secondo il racconto, l’aggressione distrusse la vita comunitaria e fu fatta prigioniera la badessa Madruí, che visse da schiava a Maiorca finché scappa con l’aiuto di un parente, liberandosi eroicamente dalla schiavitù. Il suo atto di libertà consiste nel tornare al monastero, dove trova una comunità accogliente, che funziona e con una nuova badessa; poco dopo essere arrivata, la cronaca la fa morire. Il suo ritorno libera il monastero da una schiavitù simbolica: quella di vivere in una storia, in un filo di senso, rotto dall’aggressione maschile. Il suo ritorno restituisce al monastero un tempo e una genalogia propria, che in questo modo è cicostanzialmente interrotta ma non usurpata.
La Crònica de Sant Pere de les Puel·les originariamente doveva essere composta dalle monache del monastero, oralmente e in maniera collettiva, in una relazione di riconoscimento di autorità alla voce dell’altra in un dialogo che porta all’elaborazione di una memoria comune. E questo indipendentemente da chi scrisse le versioni che oggi conosciamo. La sua scrittura deriva dalla volontà del monastero di riconoscere l’autorità femminile, e dalla volontà di preservarla come significante nel mondo.
La storia della composizione del testo della Crònica de Sant Pere de les Puel·les permette di riflettere in classe su come l’azione delle donne, ciò che hanno voluto iscrivere nel mondo, spesso non corrisponda alle formule e definizioni moderne basate sull’individualità. Lo slogan “l’anonimo è femminile” diventa una realtà molto concreta in questo esempio, un esempio che permette, in modo più generale, di riflettere sulla necessità di dar valore a tutto quello che ha senso anche se non ha nome.
Nel contesto della classe, l’elaborazione di una storia attraverso il dialogo tra le e i componenti del gruppo può diventare una pratica di autorialità collettiva, agita consapevolmente e in prima persona.
Una passeggiata per le vie del quartiere di Sant Pere di Barcellona, dopo la lettura dei brani della cronaca e con in mano la mappa, può aiutare a riflettere con l’esempio del monachesimo sulla capacità storica di intervento nel mondo di progetti strettamente femminili, oltre ad essere una lezione pratica di storia urbana.
Pianta attuale del quartiere di Sant Pere di Barcellona
Christine de Pizan che scrive nel suo studio (1410 circa)
Christine de Pizan presenta il libro manoscritto con le sue opere alla regina Isabella di Francia, s...
Ilustrazione proveniente dall’edizione valenziana del 1513 della Vita Christi di Isabel de Villena
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Montserrat Cabré i PairetNata a L’Hospitalet de Llobregat nel 1962, ha ottenuto un dottorato in storia medievale presso l’Università di Barcellona. La sua ricerca si è sempre rivolta alle tematiche di storia delle donne, in particolare in rapporto alla storia della medicina, della scienza e della cultura, come il monachesimo femminile medievale. Dal 1986 ha collaborato al gruppo e alla ricerca di Duoda, di cui era anche stata allieva e ora è docente. Attualmente insegna storia della scienza presso l’Università di Cantabria, dove ha fondato l’Aula Interdisciplinar Isabel Torres de Estudios de las Mujeres y del Género. |
Editrice di Isabel de Villena.
Christine de Pizan (1364-1430) nel 1405 scrive Il libro della Città delle Dame, in cui sostiene l’esistenza di una genealogia femminile e propone un ginecotopia, uno spazio separato per le donne, frutto della conversazione con tre dame allegoriche: Ragione, Rettitudine e Giustizia.
Al momento di erigere una città per le donne, Christine riceve queste istruzioni:
“...che tu faccia solide fondamenta, innalzi tutto attorno grandi mura alte e spesse con le loro alte torri larghe e grandi, i bastioni con i loro fossati, i terrapieni artificiali e naturali, così come si conviene a una piazza ben difesa”.
(Christine de Pizan, La Città delle Dame, introduzione, traduzione e note di Patrizia Caraffi, edizione originale a fronte di Earl Jeffrey Richards, Milano, Luni Editrice, 1997; ristampa, Roma, Carocci, 2004.)
Isabel de Villena (1430-1490) era figlia di una relazione extraconiugale del padre Enrique de Villena e di madre sconosciuta, fu educata alla corte catalano-aragonese di María de Luna e a 15 anni entrò nel Real Monasterio de la Santísima Trinidad di Valencia, dell’ordine francescano. A 33 anni fu eletta badessa della comunità. Scrisse una Vita Christi che nel 1497, sette anni dopo la sua morte, la sua compagna Aldonça de Montsoriu diede alle stampe dedicandola alla regina Isabella la Cattolica.
Badessa di Sant Pere de les Puel·les.