REVISTA BIBLIOGRÁFICA DE GEOGRAFÍA Y CIENCIAS SOCIALES Universidad de Barcelona ISSN: 1138-9796. Depósito Legal: B. 21.742-98 Vol. XIX, nº 1089, 5 de septiembre de 2014 [Serie documental de Geo Crítica. Cuadernos Críticos de Geografía Humana] |
TURISTI A GERUSALEMME. TERRITORIALITÀ ONTOLOGICA, ECONOMIA MORALE, CULTURA DI PACE
Angelo
Turco
Università IULM, Milano (Italia)
Recibido: 16 de mayo de 2014; devuelto para revisión: 19 de junio de 2014; aceptado: 30 de junio de 2014
Turisti a Gerusalemme. Territorialità ontologica, economia morale, cultura di pace (Riassunto)
Tra biopolitica e geopolitica, la territorialità ontologica di Gerusalemme subisce una delle aggressioni più violente della sua pur lunga e tormentata storia. Città tre volte santa per cristiani, musulmani ed ebrei, inizio cosmologico di ogni geografia e fine escatologica di tutte le storie, al-Quds consegna il suo millenario urbanesimo di Dio alle pianificazioni securitarie che producono segregazioni, barriere mobili, filo spinato, muraglie, enclaves. Nei “paesaggi di confini” si incrociano le ragioni dissonanti delle strategie anti-terroristiche e dell’economia morale, del monopolismo religioso e del neoliberismo state-oriented. Sullo sfondo di feroci battaglie discorsive tra israeliani e arabi, al turismo viene lasciata la responsabilità inusuale di ri-comporre il conflitto sul piano delle sue proprie esigenze di apertura mentale, accettazione dei punti di vista differenti, libertà di movimento, scambio di informazioni, ricognizione emotiva. In queste condizioni, il turista riacquista la sua antica fisionomia di theoros, colui che partecipa agli eventi per il fatto di assistervi, e ne reca testimonianza. Una figura eticamente universalista che, con la sua intrinseca cultura di pace, si rivela localmente in Yerushalayim quale autentico antidoto per una devastante deriva sociale e spaziale.
Parole chiave: Gerusalemme, pianificazione urbana, territorialità ontologica, economia morale, turismo.
Tourists in
Jerusalem. Ontological territoriality, moral economy, culture of peace
(Abstract)
Between biopolitics and geopolitics, the Jerusalem ontological territoriality is going through one of the most violent aggression of its long and restless history. Holy city for Christians, Muslims and Jewish, cosmological root of all geographies as well as eschatological end of all histories, al-Quds commits its ancient God urbanism to safety planning which produces segregations, mobile barriers, raiser wires, walls, enclaves. In this borderscape the discordant rationals of the anti-terror strategies and the moral economy, as well as the religious monopolism and the state-oriented neo-liberism, come across. In the background of discursive battles between Jewish and Arabs, tourism assume the unusual responsibility of re-structure the conflict around its own open-mind demands, and acceptance of different point of views, free mobility, information sharing, emotional exploration. Under such circumstances, the tourist re-gains its ancient status of theoros, the one who participate to events just because of being there, watching and telling others about it. This is a person that has an ethically universalist profile. With its strong culture of peace, however, he shows himself locally in Yerushalayim as an authentic antidote to a devastating social and spatial leeway.
Keywords: Jerusalem, urban planning, ontological territoriality, moral economy, tourism
Turistas en Jerusalén. Territorialidad ontológica, economía moral, cultura de paz (Resumen)
Entre biopolítica y geopolítica, la territorialidad ontológica de Jerusalén sufre una de las agreciones más violentas no obstante su larga y atormentada historia. Tres veces ciudad santa para los cristianos, los musulmanes y los judíos, inicio cosmológico de cada geografía y fin escatológico de todas las historias, al-Quds entrega su milenario urbanismo de Dios a las planificaciones seguritarias que producen segregaciones, barreras móviles, alambre de púas, murallas, enclaves. En los "paisaje de limites" se cruzan las razones disonantes de las estrategias antiterrorísticas y de la economía moral, del monopolismo religioso y del neoliberalismo state-oriented. En un marco de feroces batallas discursivas entre israelíes y árabes, al turismo se le deja la responsabilidad inusual de re-componer el conflicto en términos de sus propias necesidades de apertura mental, aceptación de puntos de vista diferentes, libertad de movimiento, intercambio de informaciones, reconocimiento emotivo. En estas condiciones, el turista recupera su antigua fisonomía de theoros, el que participa a los acontecimientos por el solo hecho de asistir, y da testimonio de ello. Una figura éticamente universalista que, con su intrínseca cultura de paz, se revela localmente en Yerushalayim como auténtico antídoto para una devastadora deriva social y espacial.
Palabras clave: Jerusalén, planificación urbana, territorialidad ontológica, economía moral, turismo.
Mappe lenticolari
Cronache dell’identità topica
Gerusalemme è un posto speciale, dotato di qualità singolari che lo fanno riconoscere sin dalle origini come un “luogo”[1]. Dai tempi remoti delle “esecrazioni” egizie, essa viene tenuta a bada dalla parola magica e dai rituali elaborati all’ombra delle Piramidi[2]. Si tratta è vero di un insediamento modesto e per certi periodi anche insignificante, con poche centinaia di abitanti. E tuttavia esso è dotato di forte individualità topica, temuto perciò da quanti pensano che “chi conosce i segreti della creazione, ha il potere di eliminare i propri nemici”[3]. Non un semplice sito, insomma, e tanto meno un posto qualunque, ma un luogo dove fermentano grandi cose. E ciò – questo ci raccontano le iscrizioni – all’insegna di una reciproca separatezza tra le genti che vi abitano. Una città dove convivono sì diverse tribù, ma ciascuna di esse ha un proprio capo, ed è quindi dotata di una sua individualità non solo genealogica, ma politica[4].
Gerusalemme è dunque un “luogo” già come insediamento Gebusita, ben prima che le Scritture prendessero nota della sua esistenza. Dal suo canto, Roberto Almagià proponeva già negli anni ’30 del secolo scorso un’asciutta descrizione del sito insediativo che appare come una sorta di premessa topografica ad una grande avventura umana, e quindi religiosa, sociale e territoriale: “la città occupa una platea un po' ondulata recinta da tre parti da profonde valli, e cioè a E. dalla valle del Cedron, tributario del Mar Morto, che la separa dal M. degli Ulivi, a S. e a O. dal suo affluente Hinnom. La penisoletta così delimitata è perciò facilmente accessibile solo da N. e da questa parte è recinta da una linea di mura, che già nell'età antica fu più volte ricostruita per inchiudere successivi ampliamenti del centro abitato”[5]. “Un sito degno del suo destino di Cité extraordinaire” nota qualche anno più tardi Jean Gottmann, non mancando di chiedersi se nel concerto degli allineamenti urbani di Palestina, di impianto meridiano, Gerusalemme diventi “carrefour”, un fulcro di commerci e di culture, grazie alla “route” che conduce dalla depressione giordana al Mediterraneo; ovvero perché, all’inverso, è essa stessa che, divenuta capitale davidica e grazie alle successive politiche salomoniche, “genera” la strada che già 30 secoli or sono la fa in qualche modo unica nel frammentato sistema insediativo palestinese[6]. Ma in quello speciale “luogo preliminare”[7] che è il sito di Gerusalemme, la fisica dell’esistenza materiale si salda alla metafisica dell’esistenza spirituale attraverso il simbolismo dell’ascesi, il binomio basso-alto: precisamente il cammino che da S, dalla fonte di Ghihon, risorsa preziosa e di per sé ritenuta sacra in un ambiente di tale aridità[8], conduce a N verso il monte Sion, il monte del Santuario: il Tempio, (dal greco temno, separare), separato dal profano della vita cittadina ma pur sempre ad essa contigua[9].
Geopolitica e spiritualità fanno da sfondo ad eterogeneità e cosmopolitismo: un quadro che mescola incessantemente genti e culture, senza che nessuna di queste sia disposta a rinunciare alla propria specificità. Gerusalemme, come del resto ogni città di Palestina, “ha la sua etnia propria”, nota ancora Gottmann, “mistura originale, praticamente indefinibile e tuttavia divisa in sezioni très tranchées” (p. 45). Nel teatro del suo paesaggio, la città mette in scena una drammaturgia fatta di tregue precarie tra le genti, di provvisorie tolleranze tra culture. Le stesse religioni che si danno appuntamento nel grande crocicchio, sono profondamente diverse, pur ammantate del medesimo velo abramitico: ebraismo, cristianesimo, islam. E ciò, non solo per sostanziali questioni teologiche, ritocultuali e storiche, ben note, ma altresì per ragioni logico-economiche che vedremo nel prossimo paragrafo.
Il fatto è che, dal punto di vista geografico, stare insieme coltivando la differenza piuttosto che la diversità, introduce nello spazio urbano un modello di insediamento appropriativo che consegna al possesso di un pezzo di terra, di un’area ben perimetrata, le chiavi della propria identità[10]. Nel descrivere i fondamenti dell’alleanza tra Dio e il suo popolo, la Bibbia insiste molto sulla “distinzione”, che non di rado diventa “partizione”. Pensiamo solo ad Isacco e ai suoi figli, le cui stirpi seguono vie “separate” sul piano delle storie e, di riflesso, su quello delle geografie[11]. E pensiamo, in sequenza, alla prole di Giacobbe, che dà origine alle 12 tribù che lenticolarizzano per via istituzionale, se così possiamo dire, la socialità e la geopolitica di Eretz Yisrael, la Terra che pure, in quanto promessa ad Abramo, è una e non può che essere comune.
Se come dice Goiten[12], la storia ebraica inizia con Mosé, il fondatore della fede giudaica, è certo che la politica trova il suo punto di condensazione nella fondazione del regno di Israele di cui Gerusalemme, con Davide, diventa capitale. La fondazione del Tempio, del resto, è consustanziale a questo atto giacché seppure questo sia stato edificato materialmente da Salomone, è per incarico di suo padre che ciò accade, secondo il volere trasmesso a Davide da Dio stesso. La distruzione del Tempio salomonico, la cattività babilonese del popolo ebraico, il ritorno in Palestina, l’edificazione del secondo Tempio scandiscono l’ingresso di Gerusalemme in una nuova e più ribollente fase di lenticolarità identitaria: distinzione e separazione, in un corpo urbano che resta unitario e compatto. Nobiltà sacerdotale e regale, Sadducei e Farisei, Zeloti ed Esseni, come testimonia Flavio Giuseppe nelle Antichità giudaiche, occupano una scena magmatica con, sullo sfondo, l’ellenismo e la romanità. Il mondo dei “gentili” tenta di assimilare anche culturalmente oltre che politicamente ed istituzionalmente il popolo giudaico, peraltro da tempo immemoriale legato da stretti rapporti con popoli arabi pre-islamici come ad esempio i Nabatei.
Con la distruzione del secondo Tempio e la caduta di Masada, gli Ebrei diventano coprotagonisti se non semplici comparse di una scena gerosolimitana sempre più dominata da fedi e popoli non giudaici. Gentili, appunto (lo stesso Flavio Giuseppe è un ebreo romanizzato che scrive le sue opere in greco), quindi cristiani e, a partire dal VII secolo – dopo un breve periodo persiano – musulmani. Gerusalemme, che deve subire lo sfregio di un cambio di denominazione sotto Adriano[13], diventa posta in gioco appunto tra Cristianesimo e Islam, con la grande partita guerresca delle Crociate, durata diversi secoli. Una partita che non vede però il contrapporsi di due blocchi monolitici. Il Cristianesimo giunge in Palestina nel segno unificante della croce armata, è vero, ma è squassato al suo interno da profonde divisioni politiche e strategiche. Senza dimenticare quelle teologiche, che si innestano sulla frattura scismatica della Chiesa d’Oriente, in atto da diversi secoli e giunta al suo compimento formale nel 1054. L’Islam, dal suo canto, conosce gli antagonismi spesso cruenti delle prime élites califfali “ortodosse” e quindi delle dinastie califfali di Damasco (omayyadi), Baghdad (abbasidi), Cairo (fatimidi) sullo sfondo dei vari posizionamenti dei potentati locali e internazionali.
Proprio in questo periodo, si intrecciano fasci di relazioni intime e pervasive tra ebrei e arabi in Palestina, una “simbiosi creativa”, come la chiama Goitein[14], che investe il pensiero, la lingua, la letteratura e, ovviamente, la religione delle due comunità. Con la fine delle Crociate, il dominio degli ayyubidi e dei mamelucchi, quindi del sultanato, poi califfato (1517) ottomano, se perpetua l’impronta islamica su Gerusalemme, marca un’era di decadenza della città, sullo sfondo di quella che più in generale può essere letta come una “eclisse” del popolo arabo e di quello ebraico, destinata a durare per circa quattro secoli.
Quando Flaubert visita Gerusalemme (1850), pur sperimentando in Terra Santa – lui, anticlericale – il mistero della fede, non può che annotare nella sua Corrispondenza che, tra fetore e lerciume “Gerusalemme è un carnaio circondato da mura… Salvo le vicinanze del quartiere armeno… tutto è sporchissimo. Il fondo stradale è quasi impossibile per i cavalli – nella strada del nostro albergo un cane giallo marcisce tranquillamente senza che nessuno pensi di spostarlo… Rovine dappertutto [da cui traspira] il sepolcro e la desolazione”.
Attorno a quella data, secondo stime discordanti ma che danno significativi ordini di grandezza, la città tre volte santa non è che un piccolo borgo di 10.000-15.000 abitanti, per metà ebrei, e per l’altra metà musulmani e cristiani.
La fabbrica urbana dell’esclusione
Ma proprio in questo periodo si sviluppa una serie di operazioni di “ridefinizione spaziale” di Gerusalemme, in un duplice senso. Da un lato, il riassetto e la redistribuzione demografica, funzionale ed abitativa della città murata. Dall’altro lato, l’emergenza di una “nuova” Gerusalemme oltre le mura della “vecchia”, che si definisce progressivamente nella sua morfologia urbana e nei suoi profili abitativi, demografici e funzionali. E ciò, sullo sfondo della crisi dell’impero ottomano e delle politiche di potenza dei grandi Stati d’Europa[15]. Le due operazioni di ridefinizione sono complesse, condotte nell’arco di quasi un secolo da soggetti plurimi. Nel loro puntuale studio geografico, Kark e Oren-Nordheim[16] mostrano bene come questa rinascita gerosolimitana non solo produca espansioni e villaggi periurbani ebraici, cristiani e musulmani, ma all’interno di ognuna di queste categorie si mettono in movimento forze e profili attoriali molto diversificati: organizzazioni politiche e finanziarie, società immobiliari e edili, soggetti pubblici e privati, rappresentanze diplomatiche, interessi professionali non meno che confessionali. Attorno a Gerusalemme e per impulso di ciò che vi succede, cambiano i modi del produrre e dell’abitare. Si osserva una sedentarizzazione dei beduini, un’espansione degli impieghi non agricoli e l’apparizione di nuovi rapporti sociali nei villaggi tradizionali. D’altronde, crescono le colonizzazioni agricole, di cui sono protagonisti non solo gli ebrei ma anche i cristiani. Questi ultimi proiettano al suolo delle caratteristiche confessionali e “nazionali” capaci di costruire nessi tra paesaggio e identità, di imprimere al territorio il proprio calco tecnologico e culturale non meno che il loro “geopietismo”, per usare l’espressione di Yi-Fu Tuan[17].
Lo sviluppo moderno di Gerusalemme, pur essendo strettamente connesso all’Europa per i molti motivi che vedremo, ha poco a che fare con quello che succede sulla scena urbana europea. L’insediamento ridisegna il suo volto all’incrocio di un triplice status: come città preindustriale; come città coloniale; infine, come città che conserva una fortissima tradizione mediorientale. A questo proposito, la ricerca di R. Kark è di primaria importanza perché illustra la genesi moderna della territorialità di Gerusalemme che recupera e rilancia con i suoi connotati lenticolari (la distinzione nell’unità) un processo geografico plurimillenario, suggerendo l’idea che la degradazione del modello urbano (e forse l’inizio della sua mutazione genetica) avvenga con la partizione della città nel 1948[18].
C’è una fortissima motivazione religiosa, e più ampiamente culturale, in queste concomitanti operazioni di “riconquista” urbana, come è chiaro. Tuttavia nel loro insieme esse si inscrivono proprio nella più antica tradizione di Gerusalemme, città mediorientale. Si realizza infatti un’appropriazione lenticolare dello spazio urbano nel senso che – pur veicolate da (e veicolando) simboli – esse si svolgono in primis per via fondiaria, con l’acquisto di diritti su lotti, aree, terreni, abitazioni, costruzioni. Diritti che si provvede a certificare nel modo più chiaro possibile, attraverso atti giuridici, e dando ad essi piena visibilità con iscrizioni, segni, simboli laici o religiosi e, non ultimo, attraverso perimetrazioni fisiche (muri, palizzate, recinzioni e quant’altro).
La spinta religiosa – come sempre a Gerusalemme, si può dire – associa la politica e, questa volta in modo decisamente forte, gli strumenti normativi e finanziari. Un ruolo particolare gioca la disponibilità di beni immobiliari (edifici e terreni edificabili) che si viene a creare negli anni successivi alla promulgazione del Codice della proprietà fondiaria (1858) seguito dal Codice di proprietà degli stranieri (1867) nell’Impero Ottomano. Tali Codici si applicano anche ai beni waqfs e regolamentano, facilitandolo, l’accesso alla proprietà fondiaria da parte degli stranieri[19]. Nel suo documentato e puntuale lavoro su questo tema nel periodo cruciale che precede il Mandato britannico, M. Sroor precisa che i Codici hanno avuto delle “importanti conseguenze sulle superfici delle terre waqfs, praticando un cambiamento radicale nella classificazione dei beni waqfs nelle città ottomane”[20]. Per quanto riguarda Gerusalemme, sempre nel 1858 viene creata la mutasarrifiyya (provincia) specifica, dipendente direttamente dalla capitale e resa dunque autonoma dai governatorati di Beirut e Damasco: un evidente riconoscimento dell’importanza della città (pur demograficamente modesta) e delle partite simboliche, finanziarie e soprattutto politiche che vi si giocano, specie sul piano internazionale.
L’influenza straniera in Palestina va montando e non stupisce che gli Stati cristiani (Gran Bretagna e Austria, Francia e Germania, Russia e Italia e Spagna e Stati Uniti) cerchino di sfruttare sino in fondo la situazione agendo sia in proprio, sia a supporto delle istituzioni ecclesiastiche, congregazionali e caritative “nazionali”. Il loro fine è perlomeno duplice: rinforzare la loro presenza in loco e, per questa via, la loro rispettiva capacità di influenza sul Califfo; utilizzare a fini propagandistici un’immagine di “difensori della fede” e “ferventi cristiani” che vanno costruendo con viaggi “imperiali” di grande risonanza mediatica. Sotto questo profilo, oltretutto, il “viaggio a Gerusalemme” pur conservando il suo carattere di “pellegrinaggio” acquista con le esibite connotazioni elitarie, il senso di un modello alto da imitare che si inscrive nelle pratiche europee del tempo, precorritrici del turismo di massa[21]. La corsa all’accaparramento fondiario – che alcune potenze, come ad esempio la Russia, avevano iniziato già nella prima metà dell’800 – non è limitata alla cinta muraria, ma si diffonde sempre più estesamente all’esterno della Città Vecchia, investendo particolarmente il Monte degli Ulivi. Espropriazioni e, forse ancor più spossessamenti, sono prassi correnti e non di rado extra-legali. Gli investimenti sono ingenti, sia pubblici che privati, con forme talora del tutto specifiche di reperimento di risorse finanziarie[22].
Dal suo canto, la riconquista appropriativo-possessiva ebraica –sempre sull’onda dello smantellamento dei waqfs – viene spinta dalla ripresa delle persecuzioni antisemite in Europa e dalla successiva azione del movimento sionista[23]. L’immigrazione ebraica, l’alya, tradizionalmente determinata da motivi religiosi, si fa sempre più laica e diventa imponente. Essa contribuisce per la più gran parte all’incremento di popolazione urbana (che si moltiplica per 7 nel periodo 1850-1920, oscillando a quest’ultima data tra 70.000 e 100.000 abitanti) e dilata enormemente la città fuori dalle mura di Solimano il Magnifico. L’acquisizione di terre, come la costruzione di nuove case[24], si sviluppano a ventaglio attraverso iniziative e donazioni private o in forme più coordinate nel quadro delle istituzioni sioniste[25].
Con la fine della prima guerra mondiale, dopo un governo de facto, la Palestina viene affidata dalla Società delle Nazioni al mandato della Gran Bretagna (1922)[26]. Spetta a quest’ultima dunque di creare un “foyer national” ebraico, in accordo con la celebre Dichiarazione Balfour del 1917[27]. Il mandato britannico, de facto e de jure, dura trent’anni, durante i quali Gerusalemme ridiventa in qualche modo una capitale. Gli inglesi cercano a più riprese di governarne lo sviluppo urbanistico, ma con scarso esito (Piano Ashbee e Geddes, 1922; piano Holliday, 1934; Piano Kendall, 1944). Dal suo canto, la ridefinizione dell’assetto politico della Palestina mandataria procede a rilento, in un quadro normativo-istituzionale incerto. L’immi- grazione ebraica frattanto prosegue con una intensità crescente alterando profondamente gli equilibri demografici. Durante il mandato, secondo dati ufficiali non sempre affidabili ma idonei ad esprimere un ordine di grandezza, la popolazione musulmana cresce di qualcosa come il 50% e mentre quella cristiana si raddoppia, quella ebraica si moltiplica per otto. Gerusalemme è investita in pieno dalla nuova alya e l’acquisto di terre va di pari passo con la costruzione di edifici: il celebre King David Hotel viene edificato nel 1931 sulla collina che fronteggia la porta di Jaffa della Citta Vecchia. I dissidi tra musulmani ed ebrei, già patenti ad inizio mandato, sfociano nella rivolta araba del 1936-39 contro l’autorità britannica, che la reprime duramente. I successivi tentennamenti inglesi finiscono per scontentare anche gli ebrei – che vedono minacciati i loro diritti migratori – creando una situazione di grave tensione.
Nel 1948, saltata l’ipotesi di una partizione della Palestina mandataria in due Stati, la forza delle armi impone a Gerusalemme l’inedito statuto di “città divisa”, spezzata da una linea di cessate il fuoco tra forze israeliane (che tengono l’O) e giordane (E). Due entità separate si sviluppano in modo indipendente: quella giordana si estende a macchia d’olio, soprattutto verso N; quella israeliana, ritenendo la separazione un dato di fatto difficilmente modificabile nel breve termine, punta allo sviluppo di una autonoma entità urbana ad O, con nuovi quartieri, viabilità, servizi. I grandi assi che si giocavano intra-muros si spostano fuori le mura: il simbolismo religioso che oscillava tra i due fuochi del S. Sepolcro e del Monte del Tempio, scade in una valenza materiale confidata a due designatori referenziali, Est e Ovest, resi incomunicabili da un confine militarizzato. Il nuovo stato di Israele appronta piani urbanistici (1950) e direttori (1959), che si applicano a Gerusalemme ovest, di fatto smembrando concettualmente (oltre che militarmente) la città. È un altro dato del tutto inedito che la geopolitica propone alla storia di un insediamento che era riuscito a rimanere integra nella sua unità per tre millenni.
Con la guerra dei sei giorni, nel 1967, l’esercito israeliano conquista Gerusalemme. La guerra di nuovo cambia lo statuto geografico del territorio, sollecitando una lettura di tipo religioso prim’anco- ra che politico: per gli ebrei, non solo nazionalisti, si tratta del compimento di una missione millenaria, il ritorno biblico sul Monte del Tempio; per gli arabi, all’opposto, ci si trova di fronte a una profanazione dello Haram al-Sharif. Gerusalemme diventa capitale “una e indivisibile” dello Stato di Israele con una apposita legge del 1980. Dopo un breve periodo di separazione, la città dunque si riunifica. E soprattutto, dopo tremila anni Gerusalemme ridiventa capitale di uno stato ebraico, posto a fondamento - e sotto l’autorità - della stella di Davide, suo primo re. Ma lo statuto di capitale unificata, unitaria ed unica di Israele si fonda su una dichiarazione unilaterale della Knesset, il Parlamento israeliano Esso è tuttavia contestato a vari livelli non solo dai musulmani palestinesi e dal mondo arabo, ma dalle stesse Nazioni Unite le quali considerano la presenza israeliana in Gerusalemme come una mera occupazione che non può essere trasformata in annessione.
Gerusalemme, focolaio di fedi, torna ad essere un focolaio di tensioni, aspre come nei momenti più tragici della sua storia. Le prime, anzi, sembrano passare in secondo piano di fronte alle seconde, con le strategie politico-militari che ne conseguono. Rinverdendo l’antichissima tradizione lenticolare per cui la città “tre volte santa” non è abitata da una comunità ma ospita piuttosto collettività differenziate, Gerusalemme appare ormai come un’autentica fabbrica urbana dell’esclusione che non si affida più soltanto ai rozzi meccanismi delle frontiere militarizzate per isolare e “tener fuori”, ma ricorre a sofisticati dispositivi geografici centrati da un lato sulle pianificazioni urbanistiche mancate e, per altro verso, sulle politiche territoriali securitarie[28].
Le due cose si tengono, ovviamente. Ufficialmente, Gerusalemme è retta dal piano direttore del 1959, almeno come quadro di riferimento. E però questo schema è inoperante, riferito com’è a una città divisa e, più precisamente, alla parte O di essa. Un piano urbanistico “Gerusalemme 2000”, reso pubblico nel 2004, propone una visione unitaria di Gerusalemme al 2020 e ne affronta le problematiche in modo coerente ancorché discutibile per alcuni centrali aspetti[29]. Ma il piano, ad oggi, non è stato approvato, a causa di profondi dissensi politici in ambito israeliano, a livello della municipalità come del governo.
In assenza di una pianificazione urbana, la città si è sviluppata in base a singoli piani dettagliati dei quartieri. Piani frammentati, del tutto incoerenti da un punto di vista urbanistico, ma del tutto funzionali agli obiettivi politico-securitari di Israele. Il primo, è certo quello di consolidare la fisionomia unitaria della città in modo da renderne praticamente impossibile una nuova divisione e perennizzandone, con ciò, il ruolo non negoziabile di capitale di Israele. Le strade seguite per realizzare questi obiettivi hanno assunto nella letteratura scientifica (oltre che nei media e fatalmente nella propaganda politica) nomi che rattristano, come “giudaizzazione” e “de-arabizzazione”. La prima consiste in breve nella costruzione massiva di quartieri con popolazione ebrea a Gerusalemme E, annettendo frange successive di territori occupati. Qui risiede ormai qualcosa come la metà della popolazione ebrea della città, in aree edificate che circondano i quartieri arabi da cui sono separate da spazi liberi e morfologie di rottura (avvallamenti, rilievi). Questo allargamento a E del tessuto urbano con popolamento ebraico rompe la continuità fisica degli insediamenti palestinesi, frammentandoli e quindi riducendoli a enclaves. La “geopolitica dell’enclavizzazione”, per usare la percussiva espressione d G.-W Falah[30], si è resa possibile per l’annessione israeliana di territori occupati (Cisgiordania). Tale annessione si è fatta in due tempi: all’indomani della guerra dei sei giorni (70 kmq) e successivamente alla costruzione del “muro di separazione” (160kmq) che, iniziato nel 2002, costituisce secondo gli intendimenti israeliani una barriera contro gli attacchi terroristici, di fatto “isolando” la Cisgiordania[31].
Dal suo canto, la de-arabizzazione fa perno sul divieto di immigrazione per i palestinesi e, insieme, sull’applicazione stretta del principio secondo il quale nessun permesso di costruzione può essere concesso se la proprietà del terreno non viene dimostrata attraverso un titolo legale (e non attraverso il semplice possesso): ciò che a Gerusalemme E è quasi impossibile per la rarità ed evanescenza di registrazioni e documenti catastali[32]. Vecchia storia, si dirà: il colonialismo europeo in Africa non ha forse dichiarato “terre vacanti e senza padrone” (e quindi demaniali) quelle non accatastate (ossia la quasi totalità), senza curarsi dei diritti basici (o “consuetudinari”) che sono parte integrante della cultura e delle istituzioni dei popoli colonizzati? Vecchia storia, sì, ma sempre di puntuta efficacia: giacché in modo del tutto “legale” − e in pieno ossequio al formalismo giuridico per cui non posso consentire che, senza un giusto titolo, inattaccabile secondo le mie leggi, tu ti appropri di un bene fondiario che potrebbe appartenere a qualcun altro − non si concede l’autorizzazione a costruire. E, ove l’edificazione avvenga lo stesso, l’edificio viene demolito perché… illegale[33]. Insomma, un micidiale “Comma 22” per riprendere il celebre libro di Joseph Heller, con protagonista, questa volta, il processo di territorializzazione[34].
Dovremo tornare più oltre su questa declinazione estremizzata della lenticolarità gerosolimitana. Ma dobbiamo chiederci fin d’ora: un ordinamento spaziale così dispotico e segregativo, generatore di frantumazioni e risentimenti e odi e violenze d’ogni sorta, può avere davvero qualcosa a che fare con la geografia fondativa di questa terra, con la territorialità ontologica di Gerusalemme?
Territorialità ontologicaSezionare, compartimentare, dividere e da ultimo, a quanto pare, escludere. E però, come la lenticolarità è un antichissimo sigillo di Gerusalemme, così l’ontologia è il senso e il significato della territorialità gerosolimitana. Se ne può seguire il filo rosso in moltissimi lavori analitici, come pure nell’appassionante biografia di Sebag Montefiore[35].
Ricordiamo intanto che Gerusalemme è l’inizio di ogni geografia; la fine di tutte le storie. E ciò, per i credenti delle tre religioni del Libro, che si sono date appuntamento nel suo roccioso biancore: l’ebraismo, il cristianesimo, l’islam (Figura 1). L’inizio di ogni geografia dunque, che tuttavia contiene le tracce ora forti ora labili ma comunque durature di un’assoluta pretesa: congiungere sul territorio e grazie al territorio − nella città e grazie alla città − la religione con la politica. Il sacro con lo stato. La tensione verso Dio con le istituzioni di governo: quasi che la prima potesse pur concepirsi ma certo non darsi senza le seconde; e quasi che le seconde fossero prive di consistenza senza le prime, o il simulacro di una consistenza empirica irrimediabilmente povera se privata della propria sostanza teologica. È il senso primo e imperituro della scelta davidica. Così, se Dio ha seguito gli ebrei nella loro diaspora, questi non cessano di pregare tre volte al giorno, rivolti verso la città: “Possano i nostri occhi vedere il tuo ritorno, o Signore, a Gerusalemme”. Più che una congiunzione, tra il sacro e lo stato si afferma una consustanziazione: non astratta e puramente teologale, per così dire, ma storicizzata in una geografia, in un agire territoriale che nel mentre riflette il legame di Dio con il suo popolo, diventa condizione perché questo stesso popolo possa coltivare il suo legame con Dio.
Figura 1. Territorialità
ontologica: pellegrini ai luoghi santi di Gerusalemme |
Dovremo ritornare su questo punto di straordinaria importanza, poiché tocca l’intera e pur composita religiosità gerosolimitana. Qui diciamo, per continuare il discorso dell’inizio, che la religione si costruisce a partire da Mosé, come sostiene Goitein nel suo classico studio, ma è con la fondazione del regno di Davide e, quindi, con l’edificazione del Tempio di Salomone che la geografia giudaica afferma il suo radicamento culturale e rende esplicito nei secoli e per i secoli il proprio profilo. L’alleanza che prima era mobile, con l’Arca, si fissa finalmente nel Tempio. Un territorio che afferma una supre-mazia della vita e dei valori agrari e sedentari su quelli nomadici e pastorali. Un territorio che è indissolubilmente materiale, simbolico ed organizzativo, nei suoi esiti costitutivi, ma che è reso pienamente intelligibile solo nel nome e nel segno di Dio. Con il “ritorno”, appunto, all’ombra del Sacro Monte di Sion, in quella che non ha mai cessato di essere, è e resta la Città di Davide: la territorialità ontologica in cui si fondono religione e politica, il Muro del pianto e la Knesset.
Gesù instaura un nuovo ordine del mondo e, intrinsecamente, dà origine a una nuova geografia. L’avvento di Cristo è la genesi della più antica mondializzazione, se così si può dire: l’alleanza di un piccolo popolo con Dio si fa progetto universale; non riguarda più gli ebrei, ma l’umanità tutta ed ha corso non in questa o quella area, ma dovunque. In questo senso, per i cristiani il Vecchio Testamento non ha tanto valore in sé, quanto perché i fatti che narra sono preparatori rispetto al Nuovo Testamento. E non è forse un caso se tra i primi a tentare una codifica spaziale di questa lettura sia un teoros speciale, turista e donna: la pellegrina galiziana Egeria[36].
La Bibbia non trapassa nel Vangelo, giacché quest’ultimo rappresenta una frattura: annuncia la trasformazione di un’alleanza etnica e locale in un’alleanza umana e globale. È questa visione universalista di ispirazione paolina che difende con grande lucidità Origene (II sec.), seguito dai suoi allievi, primo fra tutti Eusebio. Ma è precisamente qui che si verifica una sorta di paradosso degli immaginari. Le tesi di Origene, che nullificano la supremazia gerosoliminana e tendono perfino a svuotarne la sacralità, si affermano e vengono introiettate nella coscienza cristiana come mostra la stessa concezione di una Gerusalemme celeste (e perciò universale, priva di localizzazione propria sulla terra) la quale perciò soppianta come luogo di Dio la Gerusalemme terrestre (e perciò localizzata). E tuttavia, grazie forse soprattutto alla pietas generata dalla “scoperta” dei luoghi fisici della passione, morte e resurrezione di Gesù che si attribuisce tradizionalmente a Elena, la madre di Costantino, Gerusalemme riacquista gradualmente un significato speciale nella sensibilità e nella pratica religiosa cristiana, ridiventando quel centro del mondo esaltato dalle Crociate e codificato dalle celebri mappe medievali dette T in O. Verus Israel, per il cristianesimo, resta il mondo; ma il suo centro simbolico si conferma Gerusalemme[37].
Maometto, infine, origina a sua volta una nuova geografia perché la territorialità islamica assorbe quella araba, che la precede, sublimandola in un nuovo inizio. L’inedito disegno del mondo comincia nel momento stesso in cui il Profeta lascia la Terra in eredità ai suoi fedeli, ed ascende al cielo (mi’raj) dalla “Roccia della Fondazione” dopo il celebre viaggio notturno dalla Mecca (isra’). Un importante raccordo tra la religione ebraica e quella islamica, poiché la “roccia” su cui si è impresso il calcagno di Maometto è la stessa sulla quale Abramo si apprestava a sacrificare suo figlio Isacco al volere di Dio. Ed è su questa roccia che il califfo omayyade Abd al-Malik ibn Marwan costruisce la Cupola che, con i numerosi rimaneggiamenti di epoche successive, rappresenta oggi una delle icone più potenti della città. Ed è di fronte ad essa che, in ricordo dello straordinario evento, viene costruita la “moschea estrema” al-Masjid al-Aqsa, a formare l’al-Haram al-Sharif, che costituisce nel suo complesso il terzo luogo santo dell’Islam dopo La Mecca e Medina[38].
L’inizio di ogni geografia, dunque, ed ovviamente la fine di tutte le storie perché le grandi drammaturgie della fine del mondo, dell’Apocalisse e del Giudizio Universale, si inscrivono nella scenografia gerosolimitana. È qui che la creazione si conclude: e si conclude nel senso duplice e non controvertibile di esperimento cosmologico e di costruzione geografica. Perché a Gerusalemme ha termine l’opera di Dio, la cosmologia appunto, ed ha necessariamente termine l’opera dell’uomo, la geo-grafia, il modellamento umano del mondo specialmente pre-disposto da Dio per lui. Il significato escatologico di Gerusalemme, ben noto nell’ebraismo e nel cristianesimo, è fondamentale nell’Islam. È qui, infatti, che alla fine dei tempi si chiude l’esistenza del mondo con la ricomparsa di Gesù disceso in soccorso del Mahdi nella sua lotta alfine vittoriosa contro l’Anticristo. Subito dopo, ci saranno la Resurrezione (quiyama) e, quindi, il Giorno del Giudizio (yawm al-din).
Tra il principio e la fine, la territorialità ontologica di Gerusalemme si svolge lungo un percorso di estrema complessità. Dovuta, quest’ultima, alla coesistenza e − ciò che è geograficamente cruciale − alla compresenza “santificante” delle tre religioni. Per certi versi, la territorialità ontologica si costruisce nel segno dell’idea medievale di translatio, intesa certo come svolgimento di un tempo lineare (tra un inizio e una fine, appunto) in cui non c’è però una “semplice successione” di fedi, ma una sostituzione storica delle stesse. La geografia gerosolimitana è una traiettoria sacra non paratattica, ma liminare; essa non si esprime attraverso sequenze ma attraverso compresenze ordinate a una finalizzazione. In gioco è il riconoscimento di una verità senza la quale non c’è salvezza: e ciò, per tutte e tre le religioni. Non si tratta solo di potere come controllo della materialità urbana − politica ed economica che sia − ma del potere più alto: quello della conoscenza che indica la via[39]. In questione dunque, per riprendere la terminologia dell’occidente medievale, non è solo una translatio imperii, ma altresì, e ben più profondamente, una translatio studii.
Nel rapporto tra le fedi si legge come il compimento di una legittimità religiosa che mentre afferma la superiorità di un credo, combatte, sminuisce, denigra il valore di un altro credo. E ciò, dobbiamo ribadire, non solo dal punto di vista teologico o ritocultuale, ma altresì secondo prospettive sociali e territoriali. Per ciò che a noi qui importa, la supremazia religiosa chiama in causa sia il ruolo politico di Gerusalemme, sia quello più specificamente urbanistico, a sua volta coglibile tanto nella forma urbis (disposizioni, localizzazioni) quanto nel significato estetico e simbolico delle architetture e dei manufatti monumentali (o di ciò che ne resta).
È nella congiunzione di questi elementi (fede, politica, urbanità) che si definisce storicamente il significato di quella “traslazione” dell’insediamento gerosolimitano[40], che porta nella percezione, nel- l’interpretazione, nel sentimento, nella monumentalità, nell’edifica- zione e nella pianificazione urbana l’idea del “primato di una religione” che non vale solo di per sé, ma si traduce necessariamente nella svalutazione delle altre religioni. Queste ultime, dal loro canto, si pongono negli stessi esatti termini. Sicché, non solo non accettano altro primato che non sia il proprio, ma producono a loro volta forme di svalutazione. Valga per tutte, quella che potremmo chiamare l’ellisse della centralità che nell’alternarsi storico pendola a Gerusalemme tra due fuochi: quello del Monte del Tempio e, quindi, di al-Haram al-Sharif, che organizza in convergenza apparentemente paradossale la topìa religiosa ebraica e musulmana; e quello del Santo Sepolcro, su cui ovviamente converge la topìa religiosa cristiana.
A spiegare tutto ciò, concorrono analisi plurime: scritturiste anzitutto, concernenti la Bibbia, il Vangelo, il Corano; quindi storiche, geografiche, letterarie, politiche, antropologiche, psicologiche. Ma non va trascurata una più recente ed originale interpretazione di stampo economico: intendo non solo e non tanto di tipo economicistico, ma ispirata dalla logica economica[41]. Nell’originale lettura del fatto religioso proposta da Simonnot, le religioni come dispositivi sociali che sviluppano attività (anche) economicamente rilevanti ed operano all’interno dei circuiti da esse generate, non sarebbero in generale concorrenti tra loro; o per meglio dire, non operano in regime di libera concorrenza (né perfetta né imperfetta). Piuttosto, esse sono sistemi-soggetti di tipo monopolistico, che mettono perciò in campo comportamenti conseguenti[42]. In effetti, in un ambito come quello religioso, che si raccorda alla grande famiglia della produzione e circolazione dell’informazione, “non sorprenderà una certa diffidenza per la concorrenza e la tendenza a una cartellizzazione, ovvero a una monopolizzazione. Dal momento che il valore di un bene di ‘pura credenza’ riposa interamente sulla credibilità del suo ‘fornitore’, ci si può attendere che quest’ultimo sopporti difficilmente la presenza di un concorrente che vorrà necessariamente mettere in causa questa credibilità per assicurare la propria”[43]. Se tutte le religioni tendono al monopolio, le religioni monoteiste sono costitutivamente monopoliste. Questo loro profilo, sostiene l’A., viene assicurato nel lungo periodo da un fattore interno di “credibilità” di un Dio unico rispetto a divinità molteplici e, assolutamente decisivo, da un fattore esterno di tutela politica della posizione monopolistica, assicurata dallo stato. Fra creazione ed escatologia, la territorialità ontologica sconta a Gerusalemme una guerra di monopoli?
Marketable city ed economia morale
Città di Dio, Gerusalemme è storicamente piagata dagli orrori della violenza: Babilonia e Roma, Cristiani e Musulmani, terrorismo, opposti radicalismi, fino alle guerre arabo-israeliane contemporanee. Città di Dio, Gerusalemme viene storicamente piegata alle logiche della politica e si imbeve delle retoriche della propaganda e delle strumentalizzazioni ideologiche. Città di Dio, Gerusalemme è sempre stata un seducente spazio narrativo, all’incrocio di esperienze molteplici[44]; pure, oggi essa fatica ad esibire la sua verità (che pure è un attributo fondamentale del divino) e annega in un brodo di sovrainformazione, disinformazione, controinformazione. Infine, come la giri e come la volti, a Gerusalemme si fanno affari nel nome di Dio. Nessuno scandalo, si dirà: dopotutto nel nome di Dio si fa di tutto, persino le guerre. E dopotutto ciò non accade solo a Gerualemme. Ma è a Gerusalemme, come solo in pochi altri luoghi al mondo, che l’ontologia territoriale della città proietta come un imperativo morale sulle questioni che riguardano l’economia: accesso aperto alle risorse e ai benefici, distribuzione delle opportunità, equilibri sociali non possono essere soltanto regolati dalle norme giuridiche o dai meccanismi detti “del mercato”. Qui come non mai, le attività economiche sembrano vincolate ad un progetto che sappia non soltanto produrre ricchezza, ma costruire giustizia. Quel che importa qui come non mai, è che le faccende dell’economia non solo siano “legali”, ma vengano praticate nello spirito della legittimità, della giustizia, della moralità, e come tali chiaramente percepite.
Scossa dalla politica − e brutalizzata dal suo braccio militare − l’ontologia territoriale di Gerusalemme che tipo di relazioni sviluppa con l’economia? Gli affari sono tanti, evidentemente, e la “fabbrica urbana” di cui abbiamo parlato più sopra ci dice che − seppure attraverso un ordinamento spaziale che è solo l’ottuso simulacro di un processo territoriale − la città è una grande macchina produttiva in cui si mobilitano risorse, si accumulano profitti, si creano impieghi, si producono beni, si organizzano servizi. Soffermiamoci brevemente dunque su quelle che sembrano le attività più caratteristiche e vitali: edilizia e lavori pubblici; economia della cultura; turismo. Comparti che si possono distinguere, certo, e contabilizzare singolarmente in termini di reddito e posti di lavoro, ad esempio; ma che sono legati da un filo rosso decisivo per il tema qui trattato.
Perno dell’economia gerosolimitana è la pubblica amministrazione, che genera la metà degli impieghi. Particolarmente significativa per gli intenti di questo saggio, risulta l’incidenza pubblica sull’industria delle costruzioni, nel suo senso più lato: edilizia, con le infrastrutture di mobilità e le opere di urbanizzazione connesse (acqua, elettricità, fognature, allacci telefonici, ripetitori, cablaggi). La città è un cantiere aperto praticamente dal 1967, a tacere dei diciannove anni precedenti nei quali si registrava un netto squilibrio tra la parte israeliana e quella giordana. Se si considerano le sole abitazioni, si può osservare come negli anni ’90, ben 1/3 delle costruzioni è effettuata dall’Amministrazione, con anni che toccano, in un contesto di grande variabilità, anche il 50%. Comparativamente, e tanto per avere un’idea, l’edilizia di Tel Aviv vede una partecipazione pubblica prossima allo zero. Col passaggio al nuovo secolo, l’incidenza pubblica si fa più contenuta, senza per questo che il trend si inverta: nel 2011 su 100 case edificate da privati, ve ne sono 15 costruite dall’amministrazione. A Gerusalemme si costruisce quasi il 6% delle abitazioni residenziali di Israele, con una incidenza trentennale superiore a Tel Aviv. Quest’ultima resta, invece, la città dove le case sono più care, soprattutto per quanto riguarda gli appartamenti più grandi. Ciò vale anche per gli affitti, anche se le divaricazioni sono meno accentuate[45].
E però questi dati riescono a descrivere solo una parte della realtà. Abitare in certe zone di Gerusalemme, sia in affitto che in proprietà, è praticamente fuori mercato. Alla scala urbana i contrasti sono stridenti, tra una città dove la luxury estate va alla grande[46], e una città dove incombe sui palestinesi la mannaia delle demolizioni di Stato per le case ritenute abusive[47].
Un secondo caposaldo dell’economia urbana concerne il settore ampio della cultura. Primario polo museale, grande centro universitario con eccellenze nella ricerca umanistica, scientifica e tecnologica, Gerusalemme è una piattaforma non solo israeliana ma mondiale dell’innovazione e della creatività. Certo in quest’ultimo campo il primato di Tel Aviv resta netto. Quel che però è saltato è lo schema dicotomo in cui si inquadravano le due città: da un lato Tel Aviv, appunto, che cavalca la globalizzazione, realizza negli anni ’90 la rivoluzione informazionale e il “neoliberal turn” diventando così una “global city” o, come taluni preferiscono dire, una città “postmoderna”; dall’altro lato, Gerusalemme che rimane impantanata nelle secche del neofondamentalismo e, a fronte dell’internazionalizzazio-ne (e dell’americanizzazione) della consorella, resta la scena di una ideologia nazionale polarizzata tra il sionismo duro e puro e la critica più radicale[48]. Questo “racconto delle due città”[49] ha creato nell’immaginario collettivo, non solo popolare, ma scientifico, non solo economico ma politico, una serie di stilemi che si declinano in coppie oppositive: centro-periferia, i cui connotati sono l’high-tech e, rispettivamente, la venerazione; costituzionalismo evolutivo e, rispettivamente, aderenza a principi etnonazionalistici; culture politiche postnazionale e neonazionale. E si potrebbe continuare.
Tel Aviv fa le sue prove di coesistenza e, da “città senza storia” proiettata nel mondo globalizzato, diventa patrimonio mondiale dell’Unesco senza per questo uscire da quel mondo[50]. Gerusalemme, dal suo canto, fonda tutta la sua territorialità sullo sviluppo lenticolare, su coesistenze anche difficili, e non può turbare più di tanto l’impegno, in corso da qualche anno ormai, verso un profilo pieno di città globalizzata. I percorsi sono multipli ed interconnessi, ovviamente, ma prevedono un connubio tra industria e ricerca, con fasi laboratoriali (I), di incubazione (II), e di operatività produttiva (III)[51]. I risultati sono già oggi visibili: Gerusalemme può essere considerata a titolo pieno un “growing innovation ecosystem” nel quale pullulano e interagiscono start up nei campi delle tecnologia di punta: software ed energia, hardware e finanza, farmaceutica, ottica e medicina, service provider, accelerator/hub[52]. Senza dire delle arti (cinema, teatro, musica, fotografia, design)[53], della museografia, dei media. Ed è altamente significativo che tanto il prodotto quanto l’impiego del settore manifatturiero, siano per 1/3 ormai forniti da industrie ad alta tecnologia (1/8 e, rispettivamente, ¼ a Tel Aviv)[54].
Ma è l’industria dell’ospitalità il vero pilastro dell’economia gerosolimitana ed è nel turismo che la marketable city gioca le sue performances forse più affidabili, pur in un quadro che resta volatile per le ragioni politico-securitarie già evidenziate.
Il turismo a Gerusalemme si declina anzitutto come pellegrinaggio, come è ben chiaro. Il pellegrino, anzi, è costitutivo della santità urbana: egli si abbevera ad essa e, contemporaneamente, la rafforza e la diffonde verso i quattro angoli del mondo. È da sempre un “abitante” della città, una “figura urbana” che tutti, residenti e viaggiatori, in qualunque momento possono “vedere” e coinvolgere nel loro sistema materiale e simbolico di relazioni. Il pellegrino “abita” Gerusalemme, conferendole da tempo immemoriale il suo aspetto umano più caratteristico e il suo cosmopolitismo, la sua vitalità culturale, il suo fondamento economico.
La storia pellegrinale di Gerusalemme riflette la sua territorialità ontologica. Così, i primi pellegrini sono gli ebrei: come stabilisce la Tora, ogni maschio adulto deve recarsi tre volte all’anno al Tempio, per compiervi le proprie obbligazioni religiose. Quel Tempio che, costruito da Salomone, diventa con le riforme di Giosia (VII sec aC) l’unico luogo nel quale possono svolgersi i riti comandati (lamentazioni, offerte, sacrifici). Dapprima modesta, l’affluenza cresce nel corso dei secoli specialmente all’epoca del Secondo Tempio, facendosi imponente sotto il regno di Erode: 2,7 milioni nel solo periodo della Pesach, la Pasqua ebraica, nel 66 aC secondo Flavio Giuseppe. E ciò, in una città abitata stabilmente da non più di 250.000 persone[55]. Il benessere economico della città riposa sul viaggio devozionale, sullo spostamento pio di “migliaia di uomini provenienti da migliaia di città”, spesso con famiglie al seguito[56]. Di più, in occasione delle feste ebraiche (Pesach, come visto, Shavuot, Sukkot), la permanenza va oltre l’espletamento degli obblighi rituali e si prolunga per tutto il periodo. Pensiamo subito all’alloggio e al vitto, certamente; ma pensiamo altresì alle offerte al Tempio, alle spese ostentatorie, all’acquisto di oggetti d’arte, ai souvenir con grande beneficio delle corporazioni artigiane. Si capisce dunque come, in queste condizioni, Gerusalemme sia un centro di importazione di beni necessari all’espletamento delle attività del tempio (animali per il sacrificio, ad esempio) e si ponga come centro propulsore per lo sviluppo di ampie plaghe della Palestina[57]. Con la distruzione del Tempio, l’economia pellegrinale deperisce, ma il viaggio devozionale non scompare mai del tutto mantenendo in qualche modo viva una tradizione per diciannove secoli. I flussi riprendono nella seconda metà dell’800 per rifiorire con il riacquistato accesso al Muro del Pianto, che simboleggia appunto il Tempio.
Il secondo pellegrino è cristiano ed irrompe sulla scena urbana, secondo una datazione convenzionale, nel IV sec quando Costantino edifica la nuova Gerusalemme sui resti della pagana Aelia Capitolina e l’imperatrice Elena “ritrova” le reliquie legate a Gesù (e in primis quella che venne detta la Vera Croce), ricostruendo una prima mappa dei luoghi santi. Comincia così un’autentica epopea spirituale e politica, economica e culturale, umana e sociale protrattasi per secoli e vivissima ancor oggi. Sul pellegrinaggio in Terra Santa sono colati fiumi di inchiostro e non è il caso di aggiungere alcunché. Ricordiamo qui soltanto che nella tradizione pellegrinale cristiana diventa caratteristico lo sviluppo di un genere letterario − la letteratura di pellegrinaggio, appunto − a sua volta articolato in sottogeneri che si arricchiscono col tempo: dagli itineraria e descriptiones del- l’alto Medioevo fino alle memorie e alle guide dell’età moderna. È questa immensa letteratura odeporica che ci informa degli itinerari, sia terrestri che marittimi, seguiti dai pellegrini europei; ma ci ragguaglia altresì sulle condizioni logistiche in cui si muovono, sulle ragioni che li animano nel solco di una spiritualità che muta nel corso dei secoli, sui prismi culturali che informa e in cui va a collocarsi il viaggio devozionale. Pur tra alti e bassi, legati alle vicende militari e politiche che ritmano l’alternanza dei governi in Terra Santa, possiamo dire che il pellegrinaggio cristiano è sempre molto importante per l’economia urbana; di più, sviluppandosi su un lungo raggio, esso si ripercuote a distanza sullo sviluppo economico, l’assetto della mobilità, l’organizzazione insediativa e produttiva di molte plaghe d’Europa e particolarmente d’Italia.
Nel VII secolo compare in città il terzo pellegrino, musulmano. Sembrava destinato ad egemonizzare la scena, per vero, dopo che Maometto, nel 622, aveva prescritto alla giovane comunità islamica emigrata a Medina i rituali della tradizione ebraica: direzione della preghiera (qibla) e pellegrinaggio (hajj) verso Gerusalemme, digiuno del Yom Kippur (dal 10 giorno del primo mese dell’anno). Ma il rifiuto degli ebrei di riconoscerlo come profeta, inducono Maometto a dettare nel 624 nuove regole, per affermare la piena autonomia della nuova religione: centralità della Mecca, per la preghiera e il pellegrinaggio; istituzione del Ramadan per il digiuno[58]. Così, il pio viaggio musulmano rimane sempre sottotono a Gerusalemme, se così si può dire, anche se l’altissima santità è sempre riconosciuta tant’è che la città diventa ben presto una tappa privilegiata del grande pellegrinaggio meccano. A questi, si aggiungono i visitatori provenienti dalle terre più “prossime” come la Siria, l’Egitto, l’Anatolia, ma non mancano i devoti che affrontano cammini più lunghi (Afganistan, Maghreb, Spagna). Sicché seppure il flusso subisce una battuta d’arresto con le Crociate, esso rifiorisce in epoca mamelucca, continuando per tutta la dominazione ottomana e fino ai nostri giorni. La consistenza in certi periodi è robusta: 20.000 pellegrini annui mediamente in epoca mamelucca, ad esempio. Le ricadute economiche anche qui sono ragguardevoli, a giudicare dalla costruzione di khan (caravanserragli), hammam (bagni pubblici), ostelli e alberghi nel pressi di al-Haram[59]. Né stupisce come anche per il pellegrinaggio musulmano i viaggiatori eruditi scrivano i loro resoconti, trasformandoli talora in vere e proprie guide specialmente destinate al viandante gerosolimitano[60].
Ma c’è un altro pellegrino che si aggira dal fondo dei tempi per le vie di Gerusalemme, mischiato agli altri eppure da esso distinguibile: è il pellegrino “secolare”, uomini e donne che affrontano il viaggio alla città santa perche curiosi, o perché studiosi[61]. Per puro amore di conoscenza: in quanto teoroi, si vorrebbe dire. Non per motivi religiosi, dunque, anche se questi possono essere presenti, “ma per coltivare i loro interessi accademici, letterari, storici, politici, artistici o altri”[62]. Questi speciali pellegrini animano la scena urbana da sempre ma si fanno particolarmente visibili a partire dal XIX sec., incidendo con le loro opere sulla rappresentazione di Gerusalemme nella coscienza del mondo, oltre che delle loro società di appartenenza. E sono loro che fanno la giunzione con il turista moderno, il quale comincia ad acquistare la complessa fisionomia che conosciamo a cavallo del XX sec.
Oggi come all’epoca del Tempio, è il turismo che assicura la vitalità economica della città. Certo, per usare una distinzione usuale basata sulle motivazioni, il turismo business costituisce un solido supporto all’industria del tempo libero, per le ragioni già evidenziate (economia della cultura). Ma oggi, esattamente come all’epoca del Tempio, è il turismo religioso e particolarmente pellegrinale a costituire la risorsa centrale della città.
Una risorsa inestimabile perché rinnovabile e, dunque, potenzialmente inesauribile; particolarmente preziosa, oltretutto, perché è “prodotta” da un’industria esportatrice visto che la grande massa dei visitatori viene dall’estero e, praticamente, perché non c’è un visitatore che vada in Israele che non faccia una “sosta” a Gerusalemme. Una risorsa economica, ma anche una posta in gioco culturale e politica, in una partita transcalare. Sul piano internazionale, intanto: per un verso, il turismo è l’agente propagatore di una im-magine “occidentale” dei Luoghi Santi e rischia di perpetuare le vec- chie visioni (e pratiche) coloniali[63]; per altro verso, esso entra nella dinamica conflittuale che oppone gli ebrei agli arabi, Israele agli stati musulmani. Sul piano interno, una “questione turistica” oppone gli israeliani ai palestinesi fin dall’epoca mandataria[64]. E ciò, intanto, in rapporto alle differenti “narrazioni” che investono i luoghi secondo le ottiche con cui sono traguardati, come meglio vedremo nel prossimo paragrafo. Ma altresì con riferimento alle difficoltà che sperimenta il turismo “palestinese” in rapporto al turismo “israeliano” per effetto della situazione generale e, più specialmente, a causa delle politiche di enclavizzazione[65]. In buona sostanza, se c’è una guerra di monopoli a Gerusalemme, questa si riflette in modo esemplare nell’industria del tempo libero (anche se non nelle pratiche turistiche come vedremo)[66].
Come che sia, dopo la difficile ripresa successiva all’intifada di Al Aqsa (Ottobre 2000-Dicembre 2003), Gerusalemme sembra essersi riappropriata del suo straordinario magnetismo attrattivo, puntando anche su un’articolata strategia di recupero e di rilancio. Da un lato, infatti, le agenzie nazionali riprendono risolutamente in mano la gestione del post-crisis tourism[67], in un quadro di massivo, articolato e prolungato impegno mediale al fine di restaurare un’immagine positiva della “destinazione” mediorientale[68]. Dall’al- tro lato, Gerusalemme investe sulla sua attrattività, moltiplicando gli eventi e aumentando e diversificando la propria offerta turistica (convegnistica, vacanza familiare, turismo medicale)[69].
Se nell’ultimo periodo ottomano i visitatori erano ancora 15.000-20.000 all’anno (per lo più pellegrini religiosi), durante il Mandato Gerusalemme riceve fino a 100.000 visitatori all’anno, con incidenza crescente dei “pellegrini secolari”[70]. Oggi la città costituisce di gran lunga la prima destinazione internazionale del Paese, restando Eilat al vertice del turismo nazionale[71]. Negli ultimi trent’anni il trend è stato complessivamente positivo, pur scontando gli effetti negativi della Guerra del Golfo (1991) e della seconda intifada, come s’è detto. Negli alberghi gerosolimitani soggiornano (2011) 1,3 milioni di ospiti, più del doppio rispetto al 1980. La permanenza media, dal suo canto, aumenta del 70% nel periodo, restando il tasso di occupazione sostanzialmente stabile: meno di 2/3 per le stanze, poco più della metà per i letti. Gli stranieri rappresentano oltre i ¾ dei turisti, in pari consistenza (40%) europei e americani[72]. Questi ultimi, come ci si poteva attendere, restano mediamente più a lungo. Si tratta di una clientela ad alta capacità di spesa, che frequenta di preferenza strutture al top della gamma (70%). Nel suo complesso, e sempre restando all’ospitalità alberghiera, il turismo genera qualcosa come 500 milioni di dollari, per 2/3 di matrice estera. A tutto ciò bisogna aggiungere ovviamente l’ospitalità extra-alberghiera e soprattutto l’indotto, difficilmente stimabile ma sicuramente ingente, considerata la vastissima gamma di servizi che la città mette ormai a disposizione del turista anche più esigente. Il comparto turistico nel suo complesso assorbe, si può stimare, qualcosa come 1/5 della forza lavoro impiegata: praticamente il settore più importante dopo la pubblica amministrazione.
Ma per l’appunto, chi è il turista che percorre ai nostri giorni le strade di Gerusalemme, cammina sulle sue muraglie, visita i suoi Musei e i suoi parchi archeologici, i suoi monumenti, i suoi luoghi santi, gustando indimenticabili cibi e bevande di strada (a cominciare dal falafel e dal succo di melagrana) o variegate gastronomie nei ristoranti palestinesi e israeliani? È un pellegrino, certamente, a considerare i flussi stranieri (2/3 degli incoming). Costui però, pur continuando a coltivare un interesse religioso, ha fatto la sua “rivoluzione secolare” (34%), mettendo in posizione subordinata il viaggiatore devozionale (27%). In consistente misura va a trovare amici e parenti (16%) o punta al divertimento (10%), ma in proporzione crescente ciò che lo attrae a Gerusalemme è il business, anche in rapporto allo sviluppo dell’economia della creatività di cui abbiamo detto.
Pochi musulmani si recano a Gerusalemme, parecchi ebrei (1/5), moltissimi cristiani (60%) mentre un decimo non dichiara affiliazione alcuna. In ogni caso, si tratta di persone che scelgono per la più gran parte delle soluzioni organizzate ma che in misura crescente progettano e costruiscono autonomamente la propria visita (40%), in coerenza con il consolidamento dei nuovi profili di visitatori (pellegrini secolari, turismo business e leisure).
Il turismo (che) rende liberi
Sono sul Monte degli Ulivi, in questa fine di marzo 2014 (figura 2). Sono in un piccolo spiazzo semicircolare a gradoni che si raggiunge casualmente o attraverso il tam tam, radio-trottoir, insomma l’informazione virale del turista. Si, sono io, voglio dire “io turista” che provo ad inseguire il tramonto nelle città che visito perché mi pare di cogliere, nel tramonto, una parte almeno dello spirito urbano. Per questo sono arrivato qui: cercavo il tramonto di Gerusalemme. Ho preso il 75, il pulmino del trasporto pubblico inverosimilmente scomodo davanti alla porta di Erode, risalendo il Monte sul fianco settentrionale e, manco a dirlo, ho mancato la cima. Sono ridisceso dall’altra parte per un pezzo col pulmino. Sono riuscito a scendere alla prima fermata, risalendo a piedi. Eccomi in cima. Niente. Vedo l’insegna di qualcosa che potrebbe somigliare a un punto di informazione: chiuso, senza indicazione o alcuna. Intravvedo l’insegna di una chiesa su un muro: ma la porta e chiusa, e da dove sto io, non si vede la chiesa, non si vede nulla: solo il muro. Un bel muro di pietra, alto, silente, definitivo.
Figura 2. La valle del
Cedron che separa la città murata (sullo sfondo) dal Monte degli Ulivi |
Più in là, vagamente di fronte, colgo lo sventolio di una bandiera greca: il muro è più basso e un cancello è aperto. È una chiesa del patriarcato ortodosso. In realtà, attraverso il cancello non vedo chiese, qualunque cosa si voglia intendere per “chiesa”: insomma, non vedo costruzioni. Una piccola spianata pietrosa e, più oltre, un po’ di vegetazione. Un albero che sembra un olivo. Decido che è un olivo. Ne ho bisogno, su questo Monte. Faccio per entrare, ma appena varco il cancello scopro un gabbiotto in legno addossato a una balza del terreno. Dentro c’è una persona, un guardiano che con uno sguardo stupito ma in tono gentile mi dice che non si può entrare. Alcuni ragazzi (arabi, suppongo) intenti a chiacchierare da quando sono arrivato lassù, cominciano a interessarsi di me: con lo stesso sguardo incuriosito del guardiano. Mi avvio lungo una strada che segue una curva di livello e costeggio un altro muro di pietra che prolunga quello della chiesa cristiana: ma è più alto e, sopra, del filo spinato. La mente corre al lavoro di A. Petti[73], ripesco l’estetica del filo spinato[74], ripenso al condominio in cui vivevo a Niteroi, di fronte a Rio de Janeiro, alle ville sulla collina di El Biar nella fase più acuta del terrorismo algerino, all’ambasciata americana di Dar el Salaam. Insomma, so di che si tratta. Ma questo è il luogo dove io, turista, pur senza fare un vero e proprio pellegrinaggio, − o, se vogliamo, in quanto pellegrino “secolare” − sono venuto per incrociare in qualche modo Gesù. Qui, dove appare nella sua umanità più profonda, nel luogo dove ti puoi davvero specchiare in ciò che senti tuo: la debolezza, il timore di non farcela, l’angoscia per la prova imminente. Allontana da me l’amaro calice: il dialogo con Dio, la preghiera, è sempre un’interrogazione su Dio, penso io turista. Si, è così, pur sapendo di che si tratta, qui dove tento di trovare accesso a una spiritualità altrove inesistente − e forse sei venuto solo per questo − il muro con supplemento di filo spinato mi fanno impressione.
Mi immergo nel tramonto di Gerusalemme, una pratica per me usuale da frugal traveler che s’ingegna a costruire intime esperienze urbane a costo zero[75]. Di fronte a me le mura della Città Vecchia, con la Porta dei leoni, la dorata Cupola della Roccia, il profilo della cittadella con la torre di Davide: nei “lenti colori della sera” tutto è tenue, nelle forme, nelle simbologie che si intrecciano e, per una volta, non si escludono. Persino il massivo King David Hotel, sulla collina occidentale, sembra gentile e disponibile. Un pensiero va all’urbanistica mandataria che, pur con i molti limiti, è riuscita ad imporre una sua politica paesistica: apertura visuale sulla Città Vecchia dalle colline circostanti, uso della pietra nelle nuove costruzioni che la fronteggiano. Vedo dall’alto, sul fianco del Monte, i cimiteri ebraici che avevo sempre visto di fronte da Gerusalemme, nei giorni scorsi. Una ripida serpentina stradale separa la chiarità accecante delle tombe da spazi più ombrosi. Distinguo sopra tutte la chiesa russo-ortodossa di S. Maria Maddalena e, più in basso, la Basilica dell’Agonia. Lungo il fianco non vedo ulivi, che forse ci sono ma immersi in una più scura tinta di cipressi. Lungo il fianco vedo, invece, i segni consueti di un fortissimo inquinamento paesistico e topico: muraglie, grandi portoni sbarrati, cancelli, filo spinato che circondano gli edifici religiosi e non, con i loro parchi. Un fortissimo inquinamento paesistico e topico che sfregia le aspirazioni di “io turista” impedendo la libera fruizione dei luoghi, anche solo osservativa.
Considero in questo tramonto che lo sguardo del turista e il suo sentimento tentano di emancipare la città dalle mappe lenticolari che la opprimono, anche se ci riesce solo parzialmente, a petto della ferrea funzione dei dispositivi di separazione. Il suo sentimento di teoros, germinato dalla ricerca di ciò che vuole e alimentato dai frammenti di ciò che trova, è forte e non si trasforma in ri-sentimento, anche se ne avrebbe più di un motivo.
Vien fatto di pensare ancora e sempre a parole dense: “Le promeneur solitaire qui flâne à la campagne avec la certitude de s’appartenir, ne serait, en fait, que le client d’une industrie hôtelière et touristique livré à son insu, aux calculs, aux statistiques, aux planifications”. Così E. Levinas, che aggiunge: “Personne n’existerait pour soi”[76]. Già, sembra che nessuno esista di per sé: tanto meno un turista, aggiungiamo noi, specie se si tratta di un turista a Gerusalemme. E tuttavia, qui le parole di Levinas, sembrano insufficienti; qui dove, come abbiamo visto nei paragrafi precedenti, non valgono i processi “semplicemente” marketized, ma si scontano gli intrecci dei processi monopolistici legati alla religione e, in modo particolarmente acuto, dei processi di “state-managed liberalization”[77].
In questo quadro, si deve registrare il ruolo di “io turista” come posta in gioco comunicativa. Tutto il discorso su Gerusalemme ormai consta di “vere versioni” di come stanno le cose[78]. Le stesse religioni pur “rivelate” divengono in qualche modo inaffidabili a partire dalla “saldatura dei loro simboli con i disegni nazionalistici”[79]. In tali condizioni, il territorio diventa facilmente una scena manipolativa, che ha come bersaglio il turista o, all’opposto, ha per strumento il turista.
Forse l’esempio più istruttivo in proposito è l’operazione turistico-politico-religiosa denominata “Betlemme 2000” che pone al centro la Basilica della Natività con la processione di Natale che vi si svolge[80]. Quest’ultima ha inizio dalle sedi patriarcali di ognuna delle chiese presenti a Gerusalemme e culmina con il dakhilet el-batrak, l’ingresso nella Basilica. Ma l’Autorità Palestinese, e personalmente il suo capo Y. Arafat, volle fare di questa cerimonia di grande richiamo religioso e, quindi, suscettibile di sicura amplificazione mediatica, un evento di significato nazionalistico. Facendo il suo ingresso solenne e in qualche modo “patriarcale” nella Basilica all’indomani del ritiro delle truppe israeliane da Betlemme (21 Dicembre 1995), Arafat affermò una sorprendente dimensione locale e nazionale di Cristo, primo Palestinese, giungendo a cantarne le lodi, lui musulmano, in una chiesa cristiana.
Ma è la stessa quotidianità del turismo che finisce intrappolata in una Gerusalemme intesa come rappresentazione geografica di interminabili schermaglie narrative[81]. Così, la “Città di Davide” è un Parco Archeologico Nazionale israeliano la cui forte valenza ideologica sfida la sua propria realtà localizzativa, quella Gerusalemme Est che i Palestinesi rivendicano come la “loro” Gerusalemme. Ancora, “storie” che non solo descrivono la realtà territoriale, ma la strutturano, le danno senso in modo antagonistico ancorché non necessariamente contraddittorio. La storia “ufficiale” ed egemonica dell’industria turistica (mappe, guide, “cose da vedere”), di cui si appropria la politica, e quella alternativa e contro-egemonica dell’arte (performance, installazioni, new media)[82].
Ma infine, chiunque al di fuori dei circuiti organizzati voglia salire a quello che è allo stesso tempo il Monte del Tempio e la Spianata delle Moschee, sperimenterà un gioco delle parti tra israeliani e palestinesi (come si accede, dove si può andare, quando) che a volte può irritarlo, a volte può persino divertirlo, ma che esprime comunque esemplarmente il fatto che a Gerusalemme “l’informazione viene usata come una clava” come mi fece osservare una turista, anch’ella pellegrina “secolare”, proprio facendo la lunga coda per l’accesso al Monte del Tempio/Spianata delle Moschee: una coda di 50 minuti, per 10 minuti di visita.
A questo punto, proviamo a porre le cose nel prisma di teoros. “Io turista” è un cittadino che ha il privilegio di coltivare in modo consapevole ed intenso “la propria umanità” come direbbe M. Nussbaum[83]. Egli afferra in tutta la loro drammaticità i segni di una guerra in corso e tenta di far valere la sua cultura di pace. Come è stato detto il discorso su “turismo e pace” è cambiato[84]: non si tratta più di riprendere l’ufficialità assertiva delle dichiarazioni globali[85]; né di capire “se” il turismo contribuisce alla pace, con un intento più o meno retorico o ideologico[86]. Si tratta piuttosto di capire “come” il turismo può contrastare la guerra e di trasformare questa comprensione in autentiche pratiche di pace[87].
Nelle concettualizzazioni che tentano di costruire analiticamente un nesso tra turismo e pace, c’è l’idea che se quest’ultima non è solo “assenza di guerra” (o di violenza) ma altresì, costitutivamente, “presenza di giustizia”[88], le traiettorie si incrociano nella ricerca e nello “stato di benessere” dell’ospite. Recuperando una delle più fertili ambivalenze del termine “ospite” (che indica insieme colui che ospita e colui che è ospitato), possiamo dire che non possa darsi benessere per l’uno senza l’altro. Il visitatore sta bene se gli abitanti dei luoghi, dei paesaggi, degli ambienti che visita stanno bene. Tanto meno, dunque, il suo benessere potrà realizzarsi a discapito di quello dei territori di accoglienza.
Ci si chiede allora come si possa essere turisti nel “paesaggio di confini” che è oggi Gerusalemme (figura 3). Un borderscape, se si vuole, inteso come spazio semantico in cui la disgiunzione su un piano di significati, genera fusione e nuove processualità su un piano di senso[89]; ma specificamente declinato al modo restituito da Falah quale “enclavizzazione” e che Petti teorizza come uno dei modelli di base dell’ordinamento spaziale contemporaneo[90]. Ci si chiede allora come si possa vivere lo spirito di teoros in quella che E. Weizman ha descritto come “elastic geography” in termini percussivi: “the frontiers of the Occupied Territories are not rigid and fixed at all; rather, they are elastic, and in constant transformation. The linear border, a cartographic imaginary inherited from the military and political statiality of the nation state has splintered into a multitude of temporary, transportable, deployable and removable border-synonyms –‘separation walls’, ‘barriers’, blockades’, ‘closures’, ‘road blocks, checkpoints’, ‘sterile areas’, ‘special security zones’, ‘closed military areas’ and ‘killing zones- that shrink and expand the territory at will. These borders are dynamic, constantly shifting, ebbing and flowing; they creep along, stealthily surrounding Palestinian villages and roads. They may even erupt into Palestinian living rooms, bursting in through the house walla. The anarchic geography of the frontier is an evolving image of transformation, wich is remade and rearranged with every political development or decision”[91].
Figura 3. Paesaggio di
confini sul Monte degli Ulivi |
Si dirà che oggi l’industria della vacanza gerosolimitana − attraverso l’organizzazione dei circuiti e le campagne mediatiche − unitamente all’azione informativa e promozionale degli enti statali israeliani preposti (ministero del turismo in primis), riescono a tener nascosta la situazione della città alla più gran parte dei visitatori: è la via “liberale” dell’occultamento della realtà che abbiamo conosciuto per decenni nella declinazione autoritaria, ad esempio della Russia sovietica o della Cina maoista. Ma lo spirito di teoros, vorremmo dire, è invincibile. Quote crescenti di turisti, soprattutto giovani, viaggiano “senza pacchetto”, al di fuori dei circuiti organizzati, come abbiamo visto. Di più, le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione consentono alla rete di produrre contenuti. Sempre più visitatori sono disposti ad affrontare “facendo da sé” il percorso da Gerusalemme a Betlemme, per dire, e di conseguenza sempre più teoroi potranno raccontare la loro esperienza sui social media. E del resto, come vanno mostrando gli studi di C. Noy e di R. Stein, teoros lavora anche all’interno della “fortezza Israele”, trasformando attraverso le pratiche turistiche dei cittadini israeliani e palestinesi gli “itinerari di conflitto” in “itinerari di pace”[92].
Gli effetti moltiplicativi di un’informazione partecipata non ci metteranno molto a farsi sentire, rendendo sempre meno sostenibile il turismo a Gerusalemme così com’è. Tanto più se, attraverso il contatto più prolungato tra “ospiti”, la tessitura emotiva che necessariamente accompagna l’esperienza di “io turista” si salda alla tessitura cognitiva che altrettanto necessariamente accompagna l’esperienza di teoros[93]. Ma potrebbe mai vivere Gerusalemme senza il turismo? Come si colloca, anche alla luce del disegno strategico di Israele[94], una crisi progressiva della prima industria della città, dal momento che già oggi – nonostante le politiche governative di “giudaizzazione” – la carenza di impieghi provoca un saldo migratorio negativo della popolazione ebraica?
Di più, è pensabile Gerusalemme senza i suoi visitatori devozionali? È francamente inimmaginabile una città priva dei sui abitanti pellegrini che da tempo immemoriale vengono integrati nel suo stile di vita e da cui la città stessa trae il suo cosmopolitismo. E inversamente, quali saranno i riflessi di ciò sull’islam e il cristianesimo, le religioni che, accanto all’ebraismo, riconoscono in Gerusalemme il fulcro geografico del loro universalismo?
Nel commerciare frammenti di Dio, occasioni di esperienza numinosa, intrecci di emozione e conoscenza, la marketable city produce certamente una consumer coexistence. Ma produce anche sorprendenti effetti collaterali. Minimi, forse, in questa città dove l’urbanistica securitaria si sta trasformando in un vero e proprio urbicidio. Minimi, ma non per questo irrilevanti. Ed anzi capaci di aprire inquietanti crepe nel roccioso modello difensivo/aggressivo che seppure è disposto ad ammettere segregativamente la differenza che incombe, – ed anzi basandosi si di essa – nega la diversità e si immunizza dalle sue stesse possibilità di esistenza[95].
Ma lo sguardo di “io turista”, il mio sguardo, qui come ovunque, ha un potere speciale, quello di ri-significare lo spazio. Di anticiparne il modellamento conforme al mio sentimento e alle mie aspirazioni. Vedere nuovamente rispecchiate nella pianificazione urbana la territorialità ontologica e le identità inclusive della città. La valorizzazione ermeneutica dello spazio urbano da parte del turista non è elusiva, anche se a volte può essere formulata in modo metaforico. L’emanazione di un codice fondiario, ad esempio, con regole certe valide per tutti gli abitanti di Gerusalemme, metterebbe fine ad una delle più gravi derive della legge; ricondurrebbe la pianificazione urbana in un ambito di legittimità, facendo finalmente coincidere la legge (lex) e il diritto (ius); aprirebbe strade cooperative che non potrebbero tollerare a lungo ciò che io turista, già ora, non tollero: il “paesaggio di confini”, il borderscape implosivo, la separazione unilaterale, la geografia elastica. Senza contare che, come dicono analisi tanto sofisticate quanto preoccupate, “tutti trarranno beneficio da un land registration arrangement valido per l’intera Gerusalemme”[96].
La valorizzazione ermeneutica dello spazio urbano da parte del turista, si capisce, punta dopotutto a restituire Gerusalemme alla sua storia urbana millenaria, basata nei tempi lunghi sulla compresenza germinativa e non sulla emarginazione suicidaria. Equivale a ricondurre Gerusalemme alla sua territorialità plurale. Quella per cui, in fondo, “io turista” sono qui: per cogliere le profondità del sacro, le seduzioni della differenza e l’immensa energia dell’alterità.
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Notas
[1] Il luogo è una configurazione della territorialità che designa una relazione ecumenale altamente complessa, nella quale più che le “cose” o gli “stati di cose” (espresse dal designatore aristotelico topos) contano le potenzialità, le possibilità (espresse dal designatore platonico chora). Sulla territorialità configurativa (che include, oltre al luogo, anche il paesaggio e l’ambiente) si può vedere: A. Turco, 2014 e, più in generale, A. Berque, 2000.
[2] I testi e i rituali di esecrazione vengono composti in Egitto fin dal terzo millennio a.C. (Antico Regno) per scongiurare i malefici che le genti avverse potrebbero scatenare sul faraone e, specularmente, per scatenare “disastri” contro di esse. Altre città di Palestina “esecrate” (nel senso teologico antico di renderle bersaglio di vendetta divina) di Palestina sono Ashkelon e Rehob, mentre sulla costa fenicia si segnalano Byblos, ‘Arqat e Ullassa. Cfr. Y. Aharoni, 1979, p. 144.
[3] K. Muhlestein, 2008.
[4] Il significato geopolitico della Palestina, come area di coesistenza di popoli e culture con una forte coscienza della propria individualità è espresso nella stessa biblica “Tavola delle Nazioni” (Gen 10). Come è ben noto, dalla triade dei figli di Noé nasce la geografia tripartita dei Continenti (Sem/Asia, Jafet/Europa, Cam/Africa) illustrata dalla mappa orbis terrae, che tanta influenza avrà nella concezione medievale del mondo a partire dalle celeberrime Etimologie di Isidoro di Siviglia (Cap. 14).
[5] Enciclopedia Italiana, voce, 1932. Nonostante la non occasionale attenzione di un geografo influente come Almagià (per cui si veda in sintesi: M. Mancini, 2004) gli studiosi italiani si sono occupati assai poco di Palestina e, segnatamente, di Gerusalemme. Eccezione notevole, senza dubbio a causa della sua sensibilità geopolitica, costituisce G. Roletto (1960) che non manca di notare la “spiccata centralità [dell’area] nel quadro delle vicende mondiali” invitando i suoi colleghi (“coloro che seguono con spirito obiettivo i fatti storici ed economici dell’umanità attuale”) a prestare a questa terra “l’attenzione più viva” (p. 7). È con piacere dunque che segnaliamo una certa ripresa di interesse in anni più recenti, di cui appare testimonianza: M. Moretti, M. Tabusi, 2009.
[6] J. Gottmann, 1959. Il saggio è originariamente pubblicato in: Bulletin de l’Association des Géographes Français, 119, 1939. Il triplice allineamento citato da Gottmann si snoda nella piana costiera, sulla cresta montagnosa (dove giace Gerusalemme) e nella depressione giordana.
[7] L’espressione è di J. Bonnemaison, che così spiega: “Oltre il sistema di produzione e della storicità, esiste un ‘luogo preliminare’ - o, se si preferisce, una percezione legata a un’organizzazione mentale – che sorge dall’osmosi creatrice tra una natura precisa e i grandi miti fondatori che la spiegano. Di questo ‘luogo preliminare’ che va specificatamente definito per ogni società, derivano una ‘messa in forma’ dello spazio e, attraverso di essa, una rete di valori e di significazioni” (J. Bonnemaison, 1985, p. 36).
[8] Per quanto sostanzialmente mediterraneo, il clima di Gerusalemme presenta marcate caratteristiche di transizione verso le terre asciutte della depressione del Giordano.
[9] Riportiamo, rovesciata, l’osservazione di R. Bonfil, mettendo l’accento sulla continuità degli elementi topografici pur nel dislivello S-N (R. Bonfil, 1994).
[10] Val la pena sottolineare che non è l’appropriazione in sé a determinare la specificità del modello insediativo, ma l’appropriazione “possessiva” che implica la pretesa o l’esistenza o l’esercizio di un diritto territoriale attraverso (e grazie al) possesso fisico di una terra. Nel processo di territorializzazione, l’insediamento appropriativo (possessivo e non) è alquanto diffuso (un’analisi esemplificativa di questo tema presso i Gurmancé dell’Africa Occidentale in: A. Turco, 2010, Cap. 9: “Modelli appropriativi”).
[11] Ci riferiamo, si capisce, a Giacobbe e ad Esaù, capostipite della nazione Edomita che fonda il regno di Idumea (o Edom) nelle steppe aride comprese tra il Mar Morto e il golfo di Aqaba.
[12] S.D. Goiten, 1980, p. 10.
[13] La Colonia Aelia Capitolina, in cui la residenza agli ebrei è vietata per decreto, ridiventa Gerusalemme con Costantino.
[14] S.D. Goitein, 1980, specialm. Cap. VII.
[15] L’impero ottomano non è stato mai davvero riconosciuto come parte del jus publicum europaeum, e quindi sempre considerato in qualche modo come terra se non di nessuno, almeno “in attesa” di un assetto concordato a livello internazionale. (C. Schmitt, 1991). Sull’influenza che a tutto campo giocano le potenze europee in questo campo: R. Kark, 1984.
[16] R. Kark, M. Oren-Nordheim, 2001.
[17] Dell’imponente ricerca di R. Kark in questo campo ci limitiamo a segnalare: R. Kark, 1983; Id., 1996; Id., 2004; Id., D. Denecke, H. Goren, “The impact of early german missionary enterprise in Palestine on modernization and technological change, 1820-1914”
(http://geography.huji.ac.il/.upload/RuthPub/Num%20136The%20Impact%20of%20Early%20Mission.pdf); I. Katz, R. Kark, 2005; S. Frantzman, B.W. Glueckstadt, R. Kark, 2011; S.J. Frantzman, R. Kark, 2014.
[18] Ai lavori citati nella nota precedente si aggiunga: R. Kark, 1992.
[19] Come è noto, i beni waqfs son beni gravati da “obbligazioni” tra cui, fondamentale, quella dell’inalienabilità, al fine di distribuirne l’usufrutto ai poveri, anche attraverso il finanziamento di opere pie. I waqfs possono essere fin dall’inizio costituiti per beneficenza (elemosine, costruzione e funzionamento di moschee o ospedali) o destinati ad opere pie quando si estingua la discendenza di un “fondatore” che ne aveva stabilito l’inalienabilità destinando l’usufrutto ai suoi eredi. Se il fondatore è il sultano, i waqfs entrano a far parte del demanio dello Stato. In quanto tali, possono essere concessi in diritto d’uso, a condizione che i redditi così generati siano destinati ai giudici, alle vedove, ai poveri, alle moschee, agli orfani, agli studenti e insomma ad opere caritative. Le risorse waqfs provengono così da terre agricole – fattorie (mazra), campi (ard) orti (bustan, hakura) – come da negozi (dukkan), magazzini (makhzan), caravanserragli (khan), bagni pubblici (hammam), case (dar), ed altro.
[20] M. Sroor, 2010.
[21] Pensiamo ad esempio alle stazioni balneari e montane, climatiche, termali frequentate a cavallo del ’900 da nobili e teste coronate, personalità politiche, rinomati intellettuali e artisti, finanzieri e industriali, rampolli dell’aristocrazia di sangue o di denaro: insomma, personaggi che, per usare un’espressione oggi corrente, “faceva tendenza”.
[22] “Des constructions russes ont été faites avec l’argent provenant d’une quête autorisée par le gouvernement, faite dans toute la Russie. En Prusse et en Italie, des quêtes semblables sont organisées pour les établissements de ces deux puissances à Jérusalem; je viens donc proposer d’employer ce même moyen qui ne peut manquer d’apporter un bon résultat dans une nation qui s’est toujours montrée la première à soutenir et défendre la religion catholique. Qui est-ce qui refusera son obole pour acquérir en Terre Sainte et y soutenir l’honneur du nom français?” Così scrive il console francese al suo ministro in un rapporto del 1870, riportato da: M. Sroor, 2010, con riferimento all’edizione elettronica. L’azione diplomatica, comprensiva delle questioni di extraterritorialità (capitolazioni) è intensa in quest’ultimo periodo di sovranità ottomana. Lo sguardo geografico dell’A. rende particolarmente interessante ai fini che qui importano: R. Kark, 1994.
[23] Decisamente inquietanti per le comunità ebraiche sono i pogrom che occorrono nell’impero russo a partire dal 1881. Quanto al movimento sionista, esso ha – come noto – il suo atto di nascita ufficiale con la convocazione del Congresso sionista mondiale nel 1897 a Basilea da parte di Theodor Herzl.
[24] Nel periodo indicato, le cisterne domestiche, che assicurano per l’essen- ziale l’approvvigionamento idrico urbano, passano da 992 a 7.300 (V. Lemire, 2000).
[25] Riguardo alle donazioni, figura emblematica e ben nota è il barone de Rothschild. Dal suo canto, l’Organizzazione sionista crea istituzioni per realizzare i suoi programmi nazionalisti al cui centro, come è ben noto, è l’alya, l’immigrazione degli ebrei nella Eretz Israel. Immigrazioni e insediamenti possono contare, tra l’altro, su specifici canali di finanziamento come il Jewish Colonial Trust (1902), l’Anglo-Palestine Bank (1902) e, più tardi, il Keren Hayesod (1920), destinato a diventare il principale organo finanziario dell’Agenzia Ebraica (1929).
[26] Il mandato, in realtà, riguarda la Palestina e la Transgiordania, ed è il frutto di complessi negoziati tra Britannici e Francesi, oltre a organizzazioni arabe ed ebree.
[27] La “dichiarazione” prende nome, come si sa, dal ministro degli esteri britannico Arthur Balfour. Si tratta in realtà di una lettera da questi inviata a lord L.W. Rotschild, che nella seconda parte così recita: “Il governo di Sua Maestà vede con favore la costituzione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico, e si adopererà per facilitare il raggiungimento di questo scopo, essendo chiaro che nulla deve essere fatto che pregiudichi i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche della Palestina, né i diritti e lo status politico degli ebrei nelle altre nazioni” (Corsivo nostro). Ricordiamo solo per memoria che 120 anni prima il generale Bonaparte, comandante in capo delle armate di Francia in Africa e in Asia, prometteva la Palestina ai suoi eredi legittimi, “gli israeliti, nazione unica, che dei millenni di conquiste e di tirannia hanno potuto privare delle loro terre ancestrali” (1799). Il futuro empereur incitava quindi gli “israeliti” a sollevarsi per aiutare i francesi in guerra.
[28] Su questo tema si dispone di una letteratura immensa; ci limitiamo qui a rinviare alla documentazione prodotta dall’ONU, che già di per sé è imponente: http://www.ochaopt.org/. C’è da dire che Israele contesta la posizione e il ruolo complessivo (anche dal punto di vista informativo) dell’OCHA (United Nation Office for the Coordination of Humanitarian Affairs).
[29] Tra le molte disamine di questo Piano segnaliamo in sintesi, anche per la pluralità dei punti di vista: I. Salenson, 2005; F. Chiodelli, 2012. Uno stimolante approccio basato su una lettura “cartografica” di Gerusalemme “città divisa” in: L. Farrauto, 2012.
[30] G.-W. Falah, 2005. Ma si veda anche, per la messa a fuoco di quello che l’A. non esita a chiamare una “forma di apartheid spaziale”: Id., 2003.
[31] “Barriera di sicurezza” per gli uni, “muro della vergogna” per gli altri, il muro è una grande e sofisticata opera ingegneristica costata più di 1 miliardo di Euro. Con il suo tracciato di oltre 700 Km esso corre per la più gran parte lungo la linea armistiziale del 1949 (“linea verde”) discostandosene talora e penetrando in Cisgiordania anche per decine di Km. Rivendicato da Israele come lo strumento attraverso il quale sono state risparmiate centinaia di vite umane dagli attacchi terroristici, il muro è stato considerato (2004) “contrario al diritto internazionale” dalla Corte di Giustizia dell’Aia, con un parere chiesto l’anno precedente dall’Assemblea generale dell’ONU che, per parte sua, aveva condannato la costruzione di una barriera sul “territorio palestinese occupato”.
[32] Una ricostruzione del complesso processo di accatastamento delle terre in Palestina in: D. Gavish, R. Kark, 1993. Al termine del Mandato, risulta accatastato 1/5 della superficie della Palestina, praticamente corrispondente alla parte settentrionale dello Stato di Israele riconosciuto dall’ONU (Cfr. Fig. 5).
[33] UN-OCHA, The planning crisis in East Jerusalem: understanding the phenomenon of ‘illegal’ construction, OCHA Special Focus, 2009. L’OCHA monitora costantemente il fenomeno delle “costruzioni illegali” con conseguenti demolizioni e trasferimenti delle famiglie. I risvolti umanitari di questa situazione sono documentati in: UN-OCHA, 2011.
[34] Giudaizzazione (o, come taluni preferiscono dire, israelizzazione) e de-arabizzazione (con conseguente reazione di “arabizzazione”) procedono sulla scena internazionale a colpi di guerre mediatiche, dichiarazioni politiche e, ovviamente, impegni finanziari di cui si riportano a titolo di esempio due annunci recenti (2013), da fonti elettroniche entrambe ostili all’evento rispettivamente riportato: 1 miliardo di dollari per “conservare il carattere arabo di Gerusalemme” proposto dall’emiro del Qatar in seno alla Lega Araba (http://www.rightsreporter.org/gerusalemme-est-provocazione-araba-e-insulto-alle-altre-religioni/); 145 milioni messi a disposizione per la giudaizzazione da fondazioni ebreo-americane(http://realisticbird.wordpress.com/2013/08/12/palestine-145-million-for-judaization-of-jerusalem-land-seized-iof-storms-a-church/).
[35] S. Montefiore, 2011.
[36] Su Egeria si veda per tutti: F. Cardini, 1989; in specie, nel quadro del pellegrinaggio cristiano dei primi secoli, il fascino esercitato dalla Terra Santa sulle nobildonne romane in seguito al viaggio dell’imperatrice Elena è tratteggiato in: O. Limor, 1972.
[37] Sull’insieme di questi problemi si rinvia a: M. Simon, 1964; e, in lettura aggiornata: G. Filoramo, C. Gianotto (a cura), 2001.
[38] In realtà, c’è chi non manca di osservare che potrebbe trattarsi di una tradizione “interessata”, risalente al califfo omayyade in opposizione all’anti-califfo ʿAbd Allāh ibn al-Zubayr, allora detentore dei luoghi santi d’Arabia.
[39] Si tratta del sapere, dunque, uno dei fondamenti della geografia del potere come notato nel suo libro seminale da: C. Raffestin, 1980.
[40] Tracciato ad esempio da: R. Bonfil, 1994.
[41] Dopo quasi due secoli e mezzo dalla comparsa della Ricchezza delle nazioni di A. Smith (che si occupa del tema al Cap. I del Libro V), e a oltre un secolo dalla pubblicazione dell’Etica protestante e lo spirito del capitalismo, di M. Weber.
[42] Ph. Simonnot, 2008a. Il lavoro di Simonnot incrocia a più riprese, in specie sul tema del monoteismo, quello di: M. Gauchet, 2005. Esso del resto va necessariamente posto nel movimento di ripresa degli studi sul nesso tra economia e religione e particolarmente, sulla scia di E. Bloch e W. Benjamin, sul “capitalismo come religione”. Filosofia e scienze sociali sono implicate in questa ripresa, ma va ricordato il contributo della teologia della liberazione, tra cui vorremmo segnalare almeno quello del teologo brasiliano di origine coreana: Jung Mo Sung, 1992.
[43] Ph. Simonnot, 2008b, p. 79. Strumento cruciale per la conservazione e l’implementazione di questa “credibilità” è la “costruzione di memoria” o, per meglio dire, la costruzione dei “quadri sociali di memoria” come studiati da: M. Halbwachs, 1941.
[44] A. Hoffmann, G. Wolf, 2012.
[45] The Jerusalem Institute for Israel Studies, 2013 (Construction and Housing).
[46] Ad esempio in quartieri come Mekor Haim, Moshava Germanit, Har Homa o Katamon Yeshana, Kiryat Moshe, Ramat Sharet. Qui non pochi immobiliaristi operano direttamente sul mercato internazionale, trattando con prezzi in dollari. Particolarmente efficace, anche dal punto di vista promozionale che fa largo uso della rete e dei new media, è la pratica del “pacchetto immobiliare” che si rivolge ai correligionari ebraici di tutto il mondo (ma con significative segmentazioni di mercato: USA, Francia, Europa orientale, Russia) ed include non solo le operazioni legali di trasferimento di proprietà, ma anche piani economici e finanziari di acquisto.
[47] Con i pesanti effetti sull’industria edile che si possono immaginare: A. Enshassi et al., 2006.
[48] U. Ram, 2008, p. viii e specialm. Cap. II e VI.
[49] N. Alfasi, T. Fenster, 2005.
[50] C. Rozenholc, 2009.
[51] Si veda ad esempio: D. Kaufman et al., 2007.
[52] Una panoramica costantemente monitorata in: Made in Jerusalem/3000 years of innovation (http://madeinjlm.org/).
[53] Gerusalemme ospita numerosissime manifestazioni artistiche e culturali di rilievo, tra cui l’annuale “Festival del Cinema”.
[54] The Jerusalem Institute for Israel Studies, 2013, (Industry & Commerce).
[55] J. Feldman, 1992-1993.
[56] M. Goodman, 2006.
[57] G. Hartman et al., 2013.
[58] J.-Y. Leloup, 2010, voce “Pèlerinage”.
[59] A. Attal, Y. Rivière-Tancer, 1997, p. 103 ss.
[60] Ad esempio Ibn al-Murajja, XI sec; Nasir al-Din, XVI (H. Janin, 2002, Cap. 9).
[61] F. Laplanche, 2000.
[62] H. Janin, 2002, p. 3.
[63] A.J. Whartin, 2006.
[64] K. Cohen-Hattab, 2004.
[65] Un’analisi puntuale della situazione, con conseguente elaborazione di proposte volte a migliorare le condizioni del turismo palestinese e di incrementare quindi il flusso di visitatori è svolta dall’Alternative Tourism Group- Palestine (http://www.atg.ps/).
[66] Considerando la sola ospitalità alberghiera, si pensi che oltre il 90% della spesa va attribuita a Gerusalemme Ovest.
[67] Israeliane e, parzialmente, giordane e palestinesi (Cfr. D. Beirman, 2002).
[68] E. Avraham, 2013.
[69]
Si veda la sezione dedicata a Gerusalemme sul sito del Ministero israeliano del
turismo
(http://www.goisrael.com/Tourism_Eng/Tourist%20Information/Discover%20Israel/Cities/Pages/Jerusalem.aspxla)
e, rispettivamente, la sezione “turismo” del sito della municipalità di
Gerusalemme (https://www.jerusalem.muni.il/jer_main/defaultnew.asp?lng=2).
[70] K. Cohen-Hattab, 2004.
[71] Per i dati: The Jerusalem Institute for Israel Studies, 2013, (Tourism).
[72] Tedeschi e francesi soprattutto, per i primi; statunitensi per i secondi; per il resto, il grosso dei visitatori proviene dalla Russia.
[73] A. Petti, 2007.
[74] O. Razac, 2005.
[75] A. Turco, 2014.
[76] E. Levinas, 1976, p. 199 ss.
[77] S. Roberts, A. Secor, M. Sparke, 2003. L’espressione è quanto mai pregnante nel caso in esame, considerando che “Israele ha un governo altamente centralizzato con considerevoli controlli formali sull’economia e le autorità locali. …I controlli centralizzati sull’economia si devono in parte al ben noto security burden. In termini di percentuale sul PIL, Israele spende da 5 a 10 volte di più rispetto agli altri Paesi democratici. Ma vi è anche un elemento di socialismo associato all’ideologia nazionale sionista” (I. Sharkansky, 1997).
[78] Anche se certe narrazioni, nella “battaglia delle verità”, sembrano avere la meglio su altre: G.-W. Falah, 2004. Ed è precisamente il successo di una verità, come ha fatto notare E. Said, la sua “proiezione” efficace sulla scena internazionale (projecting first) che rende accettabile, contro ogni evidenza (sanzionata da risoluzioni dell’ONU), la sequenza: building-displacing (E. Said, 1995).
[79] M. Benvenisti, 1996, p. 77.
[80] A. Sossie, 2012.
[81] C. Noy, 2012a; Id., 2012b.
[82] Come accade per il gruppo sperimentale Sala-Manca, che declina i siti turistici di Gerusalemme (Ein Karem, ad esempio) conosciuti attraverso gli stilemi “egemonici” (luogo pittoresco che diede i natali al Battista), attraverso “narrazioni” contro-egemoniche che prendono in carico l’identità palestinese in quanto villaggio abbandonato dagli arabi di fronte all’occupazione israeliana del 1948. Su questo campo di battaglia narratoriale, fatto di luoghi, di storie, di autori e di attori, irrompe ora l’app cartografica iNakba, sviluppata da una ONG di Tel Aviv, Zochrot, che mappa i siti abbandonati dal palestinesi all’epoca dell’indipendenza di Israele e, a seguito di ciò, abbandonati: http://zochrot.org/en/event/launching-event-zochrots-new-mobile-app-inakba. Come è ben noto, con il termine nakba, catastrofe, gli arabi di Palestina indicano il processo di costituzione dello stato ebraico, culminato nel 1948 con la nascita di Israele.
[83] Coltivare la propria umanità significa sviluppare, con le parole di Nussbaum, “un’abilità a vedersi non solo come cittadini di qualche regione o gruppo, ma anche e soprattutto come esseri umani avvinti a tutti gli altri da legami di ricognizione ed implicazione”. (M. Nussbaum, 1997, p. 9 ss; corsivo nostro).
[84] O. Moufakkir, I. Kelly (eds), 2010.
[85] Come quella di Manila, ad esempio (il turismo va visto “come una forza vitale per la pace e la comprensione internazionale”, Dichiarazione sul turismo mondiale, 1980); o di Sofia (il turismo contribuisce ad “incrementare la mutua comprensione, avvicinando i popoli e, di conseguenza, rafforzando la cooperazione internazionale”, Carta dei diritti del turismo e codice del turista, 1983); o di Santiago (il turismo “rappresenta una forza vitale per la pace e un fattore di amicizia e comprensione tra i popoli del mondo”, Codice globale di etica per il turismo, 1999).
[86] Anche se questi due aspetti difficilmente potranno essere eliminati dal discorso su “Turismo e pace”, sembra che, anche in considerazione dell’esperien- za gerosolimitana qui presentata, retorica e ideologia appaiano più stemperati alla scala locale rispetto alla scala globale, come esaminata ad esempio nello studio esplorativo di: T. Var, J. Ap, 1994.
[87] Diverse iniziative sono sorte nell’ultimo decennio in questo campo (istituzioni di ricerca, ONG). Segnaliamo tra gli studi accademici le raccolte ad ampio spettro: R. Butler, W. Suntikul (eds), 2013; P.M. Burns, M. Novelli (eds), 2007.
[88] N.B. Salazar, 2006; J. Haessly, 2010; F. Higgins-Desbiolles, L. Blanchard, 2010.
[89] Si tratta di uno dei risultati pregnanti, sembra, in questo campo di studi su cui fa il punto: E. dell’Agnese, 2014; e per il quale segnaliamo, tra i molti lavori fioriti nell’ultimo decennio: C. Brambilla, 2014.
[90] Per G.-W. Falah rinviamo ai lavori citati in nota 30; A. Petti, 2007, specialm. Parte I. Un importante lavoro di documentazione sui “mondi separati” come emergenza della geografia contemporanea in: http://ita.babelmed.net/ricerca/%2BWALLS-separate%2Bworlds.html?searchphrase=exact&start=20
[91] E. Weizman, 2007, p. 6-7. “Elastic territories”, osserva l’A., “could thus not be understood as benign environments: high elastic political space is often more dangerou and deadly than a statis, rigid one… The dynamic morphology of the frontier resembles an incessant sea dotted with multiplying archipelagos of externally alienated and internally homogenous ethno-national enclaves…” (p. 7-8). Ovviamente, “the erratic and unpredictable nature of the frontier is exploited by the government. Chaos has its peculiar structural advantages. It supports one of Israel’s foremost strategies… (that) seeks simultaneously to obfuscate and naturalize the fact of domination” (p. 9).
[92] Del primo A., oltre ai lavori citati in nota 43, si veda: C. Noy, 2007; Id., E. Cohen (eds), 2005; Id. 2013; Id. and A. Kohn, 2010; R.L. Stein, 2008; Id:, 2001.
[93] In proposito, diversi lavori si vanno accumulando, anche in connessione con l’attività di gruppi, associazioni, ONG operanti in questo campo: D.M. Buda, A.J. McIntosh, 2012; K. Kassis, “The struggle for justice through tourism in Palestine”, 2013; R. Kassis, R. Solomon, 2013.
[94] Conservare “per sempre” a Gerusalemme il ruolo di capitale dello stato ebraico.
[95] A. Brossat, 2003.
[96] N. Shragai, 2010.
© Copyright: Angelo Turco, 2014.
© Copyright: Biblio3W, 2014.
Ficha bibliográfica:
TURCO, Angelo. Turisti a Gerusalemme. Territorialità ontologica, economia morale, cultura di pace. Biblio 3W. Revista Bibliográfica de Geografía y Ciencias Sociales. [En línea]. Barcelona: Universidad de Barcelona, 5 de septiembre de 2014, Vol. XIX, nº 1089 <http://www.ub.es/geocrit/b3w-1089.htm>[ISSN 1138-9796].