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Texts de l'Era de la Perla

La violència de tants homes vers les dones

Liberare il proprio sentire dal magma dell’incesto

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MARINA SANTINI. LUCIANA TAVERNINI. PATRICIA MEZA. ADRIANA ALONSO. ARTEMISIA

Liberare il proprio sentire dal magma dell’incesto

Pubblicato in spagnolo in DUODA, Textos políticos, La violencia de tantos hombres contra las mujeres, 26 novembre 2020 http://www.ub.edu/duoda/web/es/textos/10/275/

“Hermana, yo te creo” fu l’affermazione di migliaia di donne che insorsero contro la sentenza che declassò ad abuso lo stupro di gruppo a Pamplona nel 2018. È un’affermazione che sintetizza con forza le decennali pratiche femministe d’ascolto delle parole di un’altra donna, parole che, grazie alla fiducia dell’altra o delle altre, riescono a dire l’indicibile, prima per chi le pronuncia e poi pubblicamente, rivoluzionando il simbolico.
È quello che è accaduto per le molestie e l’incesto contro bambine e adolescenti. Dare voce al punto di vista di chi le subisce ha permesso di rompere il silenzio e ribellarsi alla minimizzazione dei danni che comportano e a non accettare le miserabili e false suddivisioni delle forme di violenza verso le minori che giuridicamente e politicamente gli uomini patriarcali tentano di imporre.
Ascoltiamo dunque la nostra esperienza femminile: diciamo che incesto è qualsiasi violazione del pudore di una bambina o adolescente da parte di un uomo o un ragazzo che lei percepisce in qualche modo collegabile alla madre, perché è la madre che costituisce il legame con la vita, la sua conservazione e dicibilità. “Il pudore è la prima e migliore difesa del corpo di una bambina o un bambino contro le aggressioni sessuali degli adulti. Il pudore è una barriera che la pelle pone per difendere le tue viscere, la tua intimità intimissima e sacra.” Così scrive María-Milagros Rivera Garretas nella sua biografia di Emily Dickinson (p.17).
Questa barriera violata produce una separazione dal proprio sentire, quello che ci permette il godimento erotico e la possibilità di esserci in ciò che diciamo e facciamo. L’incesto crea una dissociazione che rende più facile la ‘deportazione’ di molte donne in un ruolo che soddisfi il piacere maschile e che interiorizzi il ‘sapere’ patriarcale, accademico e non. Disponibili ‘ancelle’, attente ripetitrici. Per fortuna ci salvano il fastidio o la rabbia o il dolore, o tutti insieme, che lasciano sbrecciato uno spiraglio: l’ascolto di altre lo può ingrandire perché passi la luce su ciò che è accaduto, possa rendersi dicibile la verità soggettiva e proporsi al mondo perché questo delitto diventi impensabile per tutti gli uomini.
Noi donne in questi anni ne abbiamo scritto molto e a questi testi facciamo riferimento nella bibliografia. Proponiamo le riflessioni introduttive di una nostra lezione del corso di Historia viviente del Master en Estudios de la diferencia sexual dell’Università di Barcellona e le testimonianze di tre allieve, pensiero dell’esperienza che conferma e fa luce sulle conseguenze dell’incesto e su come liberarcene.
M.S. y L.T.


Una comprensione differente dell’incesto.
Marina Santini y Luciana Tavernini

Quando María-Milagros Rivera Garretas nella biografia di Emily Dickinson scrisse dell’incesto, anche per noi questa parola ebbe una forza dirompente al punto che all’inizio facevamo fatica ad accettarla. Spesso usiamo parole più sfumate come molestia, abuso. Pensiamo che il tabù dell’incesto sia prioritariamente rivolto alle donne perché non ne parlino. Dai racconti di storia vivente possiamo dire che incesto è qualsiasi atto a carattere sessuale perpetrato su una bambina o ragazza (forse anche su un bambino o ragazzo) da un uomo di età maggiore, legato in qualche modo alla madre. Quando non si riesce a parlarne, l’incesto determina una sfiducia nei confronti della madre, mediazione prioritaria verso gli altri e il mondo, nei confronti della potenza del linguaggio che apprendiamo da lei. La madre, interagendo con ciascuna sua creatura, lo ha fatto in un modo specifico e le ha fatto percepire la sua preziosa unicità, e da lì quella di ogni essere umano, le ha insegnato l’attenzione al sentire originario.
L’incesto è qualcosa di inimmaginabile per una bambina o una ragazza, una possibilità che non rientra nella sua capacità di comprensione perché la madre le ha fatto sentire che il contesto, in cui per il fatto di aver accettato di farla nascere, era comunque buono e che la figlia era soggetto di una continua interlocuzione, non un oggetto. L’incesto è un’esperienza disorientante, a volte terrorizzante, che spinge alla dissociazione da sé per non rivivere quelle sensazioni.
Non essere in grado di percepire il proprio sentire porta a una sessualità slegata dal piacere, a volte a una disponibilità sessuale alla ricerca di esperienze soddisfacenti, in cui per essere amata si diventa strumento per piacere e per il piacere dell’altro. Spesso anche nei racconti di donne prostituite vi è all’origine un’esperienza di incesto, nel senso qui proposto. L’altro danno legato alla difficoltà di stare in ascolto del proprio sentire porta a un’insicurezza rispetto alle proprie opinioni, a non saperle esprime pubblicamente, a non saper giudicare, quindi ad agire per compiacere. Ciascun essere umano non è isolato né indipendente, ha bisogno di esprimersi ed essere ascoltato, per questo ha bisogno di integrare il suo sentire personale con il significato che, innanzi tutto la madre, e poi il contesto in cui vive danno all’esperienza di sé e del mondo. Per sviluppare al meglio le nostre potenzialità e capacità è necessario che siano in sintonia sentire personale e significato dato da chi è in relazione con noi. Invece, come accade nella società patriarcale, il sentire femminile viene depotenziato sia dal sapere codificato sia da azioni maschili, come l’incesto, che confondono la percezione del proprio sentire, e anche dal silenzio intorno alla nascita o da narrazioni che cancellano la madre. L’incesto è una forma che gli uomini patriarcali usano per togliere alle giovani la baldanza che deriva dall’essere dello stesso sesso della madre, cioè di colei che sappiamo è l’origine e la continuazione della vita, che testimonia l’amore che vincola le creature, che ci insegna il senso del mondo attraverso il linguaggio. La svalorizzazione avviene attraverso la violabilità del corpo senziente in quando opera di origine materna che può essere soggiogato dalla violenza, non solo fisica, o anche dal timore che la violazione possa sempre accadere. Si costruisce così l’ordine della subordinazione e del silenzio femminile, dell’idea che il mondo sia governato esclusivamente da rapporti di potere e di forza.
Per stare in questo ordine del mondo, che per noi è disordine, mettiamo in atto strategie di sopravvivenza.
Il silenzio è un modo per non rivivere l’esperienza, per non essere reificate che è quanto di più vicino alla morte vi sia, per non accettare un’interpretazione che ci inchioda al ruolo di vittima e potenzia il ruolo del carnefice, o anche perché permane sotterranea la fiducia nelle relazioni, sperimentata nei nostri primi anni di vita, che fa rimuovere l’idea stessa di male. Tuttavia abbiamo bisogno di comunicare. Allora, per parlare di noi indossiamo delle maschere che potrebbero piacere agli altri, che possono diventare una seconda personalità, che crediamo ci proteggano ma che ci lasciano un senso di inadeguatezza e di falsità. Usiamo anche l’ironia che ci permette di dire e non dire, così come riassumiamo e citiamo opinioni altrui, invece di interloquire con esse. Creiamo narrazioni in terza persona con alter ego o poesie come ha fatto Emily Dickinson usando allegorie, immagini che dicono l’indicibile con qualcos’altro. Ma la scelta proprio di quella maschera, di quell’aspetto su cui ironizziamo, di quella citazione, di quel personaggio, di quella allegoria è indizio del nostro vero sentire. Il corpo senziente ha memoria di ciò che gli ha rivelato il disordine e lo segnala attraverso disagio e sintomi che richiedono ascolto e interpretazione insieme ad altre donne. Il pericolo invece è la pietrificazione, il chiudersi nell’apparente indifferenza. A volte una donna riesce a parlarne solo dopo la morte della propria madre o in una lingua che la madre non conosce. Solo rivolgendosi a un’altra o ad altre, forti per il valore dato alla differenza femminile, può riconoscere l’amore della madre, nonostante la sua incapacità di proteggerla in quelle situazioni e così ritrova la potenza del sentire originario che ci guida nella nostra realizzazione.
Il sentire vero è il sentire in libertà
Patricia Meza Rodríguez

Prima di tutto devo dire che mi emozionava realizzare questo esercizio perché mi sconvolge completamente, così che l’episodio da cui posso partire da me è la mia partecipazione al seminario di primavera di DUODA dell’anno scorso. Con le letture per realizzare questo esercizio ho scoperto che l’essere uscita dal dolore della mia infanzia mi ha dotato di autorità nel dire della mia vita, nel dire della mia esperienza per parlare con altre e altri del tema dell’incesto o di qualsiasi altro tema, ha aumentato la mia sicurezza nel mio dire. Un’altra scoperta che ho fatto con le letture è che senza cercarla ho ottenuto giustizia di dire l’indicibile parlando dall’ordine simbolico della madre, giustizia che ho ottenuta uscendo da me, per trovarmi, per trovare il mio vero sentire, anche se devo dire che mi sono concentrata più nel disfare ciò che mi faceva male che nel vero sentire, forse perché continuo ancora a godere di sentirmi libera. È qualcosa su cui devo riflettere con più attenzione.
Da allora, si sono modificate le mie relazioni con le donne con cui vivo perché sentire l’autorità nella mia esperienza mi dà fiducia prima nel parlare con me stessa e poi nel parlare con altre e altri. Chi mi ha ascoltato e con cui ho continuato a vivere ha accettato quell’autorità dell’esperienza, avvicinandosi maggiormente con fiducia verso di me, e allo stesso tempo ciò genera in me una maggiore fiducia nelle mie parole.
Mi colpisce che quello che ho chiamato ‘dolore nella nostra vita’, voi nella storia vivente lo abbiate chiamato ‘sciogliere i nodi che permettono di raccontare la storia dalla verità delle donne’, infatti quello che chiamo ‘prestare attenzione al dolore delle nostre vite, qualunque esso sia’, ci permetterà di poter camminare in libertà. Ciò che cercano entrambe le forme è il linguaggio della verità delle donne.
Gli esercizi di questo tema mi hanno anche fatto ricordare com’era la mia vita prima di uscire dal dolore della mia infanzia perché era praticamente impossibile per me parlare in pubblico, fin da piccola ero introversa, di fronte a chiunque mi parlasse o mi facesse parlare in pubblico arrossivo completamente; una delle prime cose che ho scoperto, vomitando tutto il dolore che portavo nella mia vita, è stata che fino ad allora ero stata invisibile in ogni spazio in cui ero stata, che non mi vedevo, nell’aula della scuola, nella mia famiglia, a una festa e che quando ho trovato me il mio vero sentire ho recuperato per la prima volta la mia immagine, la mia presenza. Da quando sono uscita dal dolore della mia vita, ora ovunque mi presento mi vedo, ho presenza; è cambiata completamente la mia relazione con il mio mondo esterno ed è stata una scoperta che, quando ci penso, continua ad avere un impatto su di me come quando l’ho scoperta. E così con la mia presenza ho riacquistato anche la mia voce, questo mi ha fatto desiderare che altre e altri come me uscissero dal loro mutismo per poter vivere una vita piena in libertà partendo da sé, ed esistere.
La bambina non sta mentendo*
Adriana Alonso Sámano

La difficoltà di parlare
Riconosco in me la difficoltà e il timore a esprimere la mia parola e il mio sentire pubblicamente, preferirei non essere vista o notata, lo sento pericoloso, ancor di più, parlare di me stessa, ma a volte ho bisogno o un grande desiderio e lo faccio come posso, molte volte con errori. Sempre con la conseguente paura di essere rifiutata, screditata o derisa. Allo stesso tempo, mi piacciono molto le conversazioni e le parole, parlare, scrivere, scambiare e ascoltare. Prendo dalla mia esperienza quando parlo o scrivo in confidenza, di solito in relazioni duali con donne, racconto cose che partono dalla mia esperienza, ma noto che tendo a metterla in rapporto, giustificarla o nasconderla con il collettivo, forse lì appare un punto di vista fittizio che diventa plurale. Posso partire dalla mia esperienza, ma tendo a dissolverla o ridurla al collettivo, sembra che il collettivo abbia maggior peso, sia più importante, sembra includere o inglobare il generale, poiché la mia esperienza potrebbe essere insufficiente. Il collettivo si impone sul personale da una posizione fittizia di partenza plurale, che non è il partire da sé e che mi allontana dall’esperienza. L’autorità dell’esperienza vacilla e viene posta all’esterno, dubitando della verità, del sentire delle viscere.
Grazie al lavoro nel corso La Historia Viviente, ho potuto notare che questo timore a prendere la parola, la paura di scrivere, di essere smascherata, di essere giudicata, interpretata male, ecc. ha a che fare con l’esperienza di non essere creduta da bambina, lasciando tutto in un silenzio neutrale, e più tardi anche nella presa in giro spietata, di fronte alla violenza sessuale maschile che ho vissuto per la prima volta in modo crudo, come tante donne, da bambina.
La prima volta che mi sono letteralmente scontrata con il patriarcato è stato molto presto nella mia vita, avevo sette anni, curiosamente fu in una libreria molto famosa nel sud di Città del Messico - un posto buio dove rinchiudono bambine tra i libri, penso - “spazio di educazione, cultura, sapere”, ecc. Quel pomeriggio, mia madre e mio padre si erano incontrati come al solito con il loro collettivo umanista nella caffetteria della libreria. Mi piaceva andare in quel posto perché c’erano “attività culturali infantili” ed ero molto felice di curiosare tra i libri, poi un uomo, un impiegato della libreria, mi prese per un braccio, mi disse che mi avrebbe mostrato dei bei libri per l’infanzia, mi portò in una zona molto remota, mi mise su una pila di libri e aprì davanti a me il libro Encuentra a Wally (Trova Wally) - che odio ancora adesso -, mi spiegò che dovevo trovare l’allegro personaggio annoiato tra mille disegni quasi identici, l’uomo era dietro di me, quando mi voltai mi resi conto che aveva i pantaloni abbassati e mi mostrava il pene eretto e minaccioso, sentii una paura orribile e un disgusto che non riesco a descrivere. Fortunatamente riuscii a correre a gran velocità per proteggermi con mia madre, mentre lui mi gridava: dove vai, ti accompagno? Quando arrivai da mia madre, le chiesi di accompagnarmi in bagno per raccontarle il delitto, come se fosse un segreto sporco e brutto. Ma quello che mi ferì di più fu quando mio papà arrabbiato andò a lamentarsi con il direttore della libreria, mentre io aspettavo fuori con mia madre, molto spaventata, immaginando che ci sarebbe stato un problema a causa del male che quell’uomo mi aveva fatto, mio padre uscì dall’ufficio e disse solo: Dice che la bambina sta mentendo. Non dimenticherò mai quella frase, in quel momento qualcosa di molto profondo si ruppe in me, era il credito, il credermi. Scoppiai in lacrime e paura, mi sentii sola in un corridoio buio e senza uscite, miserabile e muta, senza poter dire o capire perché non si era creduto in me, né si era giudicato quell’uomo, mentre io ero giudicata bugiarda, oltre a dover vedere di fronte a me il volto malato e misogino dell’orrore e la miseria di un delinquente sessuale.
Mia madre e la signorina dei pacchi mi consolavano, io giuravo che era vero, ma non c'era consolazione, era stata infranta la credibilità della mia esperienza. Uscimmo da quel luogo, mano nella mano con mia madre e mio padre, come se niente fosse successo, il viaggio di ritorno a casa fu particolarmente triste e silenzioso; ora so che mio padre presentò una denuncia nella cassetta dei reclami della libreria il giorno successivo, e l’argomento non fu mai più toccato in casa. Ma per me, fu il grande schianto con il patriarcato, disgustoso e pedofilo, che mi ha detto: bugiarda! circondato da libri per l’infanzia. Non potei mai più mettermi i vestiti che indossavo quel giorno, divenni una bambina piena di paura. Quella ferita rimase bloccata ma sanguinava per molti anni. Il delinquente sessuale alcuni anni dopo divenne il gestore della libreria. Non potevo entrare in quel presupposto luogo della cultura, fino a quando un giorno, a quindici anni, passando vicino alla libreria e chiedendo alla mia amica, che mi accompagnava, di attraversare il viale per non passare di lì per l’orribile ricordo dell’accaduto che le raccontai in quel momento. La mia cara amica mi disse: Entra e digli qualcosa! e mi incoraggiò a entrare, rompendo la paura di anni. Io entrai molto coraggiosa e gli dissi in faccia: Ti ricordi di me? Pedofilo! Lui scivolò via tra la gente, mentre io gridavo: Questo signore voleva violentarmi quando ero bambina! e uscii da quel posto. Mi sentii sollevata da un peso di anni; da allora posso entrare nella libreria, anche se non ho avuto bisogno di tornare.
* Lavoro personale per il Corso La Historia Viviente, rivisto per il Corso Tabula Rasa del Master DUODA, 2020.
Guarire la voce, cantare la verità
Artemisia

Questa lezione ha smosso dolori dal mio sentire di madre, sugli errori commessi, sulle circostanze che mi lacerarono l’anima. Questa lezione ha toccato specialmente ciò che affronto con mia figlia in questo accadere turbolento.
L’anno scorso mia figlia e mio marito avevano dimenticato il mio compleanno, uscii di casa sentendomi poco valorizzata, poco amata, decisi di non tornare a casa fino al pomeriggio, non rispondere alle loro chiamate, sentendomi particolarmente infelice.
La mia amica, che ha una figlia coetanea della mia, mi chiamò per dirmi che sua figlia dopo una festa, dopo aver bevuto, le aveva confessato in un intenso attacco di rabbia e rimprovero contro di lei, sua madre, che era stata vittima di abuso sessuale da parte di un vicino. Dopo l’esplosione, si rifiutava di parlarne, dicendole che si trattava solo di un episodio indotto dall’alcool, la mia amica mi chiedeva di domandare a mia figlia se sapesse qualcosa, visto che loro erano cresciute insieme e sono molto amiche.
Tornai a casa mia ad affrontare la conversazione, allora mi invase il dubbio che mia figlia fosse stata vittima di questo stesso vicino e glielo chiesi direttamente, la sua risposta fu pianto, sentii che l’aria si tagliava, sentii che si apriva un vuoto nel mio petto, sentii che il mondo si fermava. Come poteva esserle successo quando aveva dieci anni [NdT Madre e figlia vivono da molto tempo lontano dal paese d’origine] se avevo curato mia figlia, se avevo diffidato di tutti e di ognuno degli uomini sulla faccia della Terra? Poi mi confessò che era stato il nipote della mia migliore amica, un ragazzo di due anni più grande, nella mia stessa casa, nella stanza accanto a dove mi trovavo, mi raccontò che il ragazzo la toccò, lei si spaventò e corse dove mi trovavo. Non me ne aveva mai parlato perché credeva che, se lo avessi saputo, avrei interrotto tutti i rapporti con la mia migliore amica che aveva anche con lei un rapporto di fiducia e amore profondo. In effetti, se lo avessi saputo, avrei seppellito quella relazione, l’avrei gettata a mare per sempre; tuttavia, non avendolo saputo, continuammo a condividere infinite attività con il ragazzo aggressore. Quanto mi dispiace non averlo saputo, quante volte ho dovuto affrontarlo.
Negli anni seguenti ci furono rifiuti, rimproveri, rabbia costante contro di me, mi chiedevo un milione di volte perché mia figlia non mi amava, mi rifiutava, non potevamo parlare, no, c’era un muro tra noi. Tra le sue confessioni mi disse anche che il non potermi parlare era il motivo per cui soffriva di gravi infezioni alle tonsille e che ora che parlavamo sputava qualcosa che aveva sempre voluto raccontare ma che, non sentendosi capace, provava rabbia contro di me. Ora capisco: come poteva fidarsi di sua madre se non mi rendevo conto della sua sofferenza? Sento che la confessione ci ha cambiato la vita, le strutture della nostra relazione. Dopo aver letto Marie Thérèse Giraud, sul peso del silenzio, in fondo ho sentito sollievo che la vita mi abbia dato tempo per un chiarimento tra noi, ora capisco perché dimenticava ripetutamente il mio compleanno, il peso del suo silenzio era così grande che non le ha permesso di esprimere il suo amore per me, ci ha espropriato delle nostre allegrie.
Ora viviamo un tempo riparatore, ripagando dolori reciproci, permettendoci una nuova opportunità ...
Oggi è il mio compleanno, solo un anno fa ho vissuto inconsolabile questo episodio, un anno turbolento in cui sono caduti muri, sono passati tsunami e ho capito un’altra verità: solo con la madre è permesso esprimere la rabbia nella sua massima espressione, perché è l’unica che ti permette di tirarlo fuori per curarlo.
BIBLIOGRAFIA
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-Susanna Pruna Francesch, El cuerpo partido. Poemas sin piel, prefazione di María-Milagros Rivera Garretas, collana A mano, Edición independiente, Madrid Verona Barcellona, 2021
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-María-Milagros Rivera Garretas, La verdad ausente de la filosofía: la historia viviente, en Magda Lasheras, (Coordinadoras), Filosofía de la historia y feminismos, Editorial Dykinson, Madrid 2020, pp. 111-138.
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-Luciana Tavernini, Lo spessore invisibile dei fatti in “La pratica della storia vivente”, Atti dell’incontro del 26 settembre 2014, a cura dell’associazione Le Vicine di casa, Mestre 2014, pp.24-30, pubblicato anche in italiano e spagnolo in http://www.ub.edu/duoda/bvid/text.php?doc=Duoda:text:2016.12.0009:seccion=5 Luciana Tavernini e Marina Santini, “Le donne si parlano: un nuovo sguardo su incesto-molestie sessuali su minori”, in Per amore del mondo N. 17/2020, http://www.diotimafilosofe.it/larivista/le-donne-si-parlano-un-nuovo-sguardo-su-incesto-molestie-sessuali-su-minori1/
-Candela Valle Blanco, “Decir lo indecible. Escuchar lo verdadero”, DUODA. Estudios de la Diferencia sexual, 57 (2019), pp. 64-81; trad. in italiano di Luciana Tavernini, in http://www.diotimafilosofe.it/larivista/dire-lindicibile-ascoltare-il-vero1/

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