Santa Maria della Grazia, Sutera
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Autoria
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Giuseppe Verde
Nom
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Santa Maria della Grazia, Sutera
Dades cronològiques
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ante 1500
Ordes
BenedictinesDe 1500 a 1550
Comunitats relacionades
- Historia Comunitat
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Intorno alle pendici di monte San Paolino si sviluppa l’abitato di Sutera dove, nella sua parte centrale, si trovava sia la prima che la seconda sede del monastero benedettino che prendeva il titolo di Santa Maria della Grazia.
Non si hanno notizie certe sulla fondazione di questo monastero, ma è probabile che fosse già presente nel XV secolo, per il nuovo forte impulso vocazionale, seguito al Concilio di Trento (Nicastro, 1980, p. 24).
La prima struttura monastica si trovava in posizione decentrata nel rione Palmitello, in basso rispetto al centro. Era costituita da più corpi di fabbrica bassi con giardini e chiesa (Nicastro, 1980, p. 25); di questo monastero nel sito rimane il toponimo, via Badiavecchia (Ferlisi, 2004, p. 121).
Tra le notizie relative al monastero, nella sua prima collocazione, si apprende, da un testamento redatto nel 1622, che una certa Amorella lasciava “all’Abbadia delle donne” una eredità di once 10; ed ancora, in un altro atto del 1632, che la badessa, a quel tempo, fosse suor Angelica Lombardo (Nicastro, 1980, pp. 40-41).
Il Pirri riporta: “Monialium Benedictinarun eft antiquiffimum fub tit. S. Maria de Gratia. Sorores 6. Prov. unc. 110” (erano presenti sei monache con un introito annuo di once 110) (Pirri, 1733, pp. 744 -745).
La situazione economica del monastero non era tra le più floride, ed i dissesti statici dell'abitato avevano compromesso anche la struttura monastica per il cui restauro si sarebbero dovuti investire notevoli risorse, somme che il convento non avrebbe potuto permettersi; inoltre vi era l'interesse delle monache a trasferirsi nella zona centrale del paese, prossima alla chiesa di Sant’Agata (Vaccaro, 1881, p. 77).
Nel 1727, il continuo cedere delle strutture sollecitò ulteriormente la curia nella ricerca di una soluzione. Il problema venne superato grazie all’interessamento del rappresentante del vescovo, che ottenne per le suore, una nuova sede dove le suore si trasferirono (Chipparo, 1986, p.37).
Le donazioni, eredità, concessioni e censi, continuarono a rimpinguare le casse per tutto il ‘700 e l’800, da queste però spesso nacquero contenziosi sia con i privati che con altri conventi ed enti religiosi, liti che in genere furono risolte solo dopo l'intervento del vescovo (Nicastro, 1980, pp. 31-33).
Nel 1719, suor Onofria Maria Borghese, appena eletta badessa, non accettò l'incarico, in seguito, nel 1726, venne eletta badessa con tre voti su quattro, suor Flagellata Guarini (Nicastro, 1980, pp. 41-42).
Dai libri contabili, si apprezza la consistenza economica del piccolo monastero che ancora nel 1728, aveva in cassa la cospicua somma di once 162, tanto che la badessa si era potuta permettere, per sanare i contenziosi di quell'anno, di autorizzare il versamento di tarì 3,15 al convento del Carmine e tarì 6 alla chiesa di S. Maria del Monte (Nicastro, 1980, p. 34).
Ma il numero di vocazioni cominciò a diminuire, e con esse le donazioni e rendite, limitandosi ulteriormente anche per il minor numero di richieste ad entrare in convento. Da una relazione del 1820, la situazione economica era oramai compromessa, le spese per il mantenimento delle strutture monastiche e della cappella interna non riuscivano ad essere coperte (Nicastro, 1980, pp. 99-100).
Le vocazioni andavano scemando e tra le ultime novizie che entrarono in convento nel 1809, vi fu Aloisia Barone di Casteltermini che fece la sua professione nel 1812 prendendo il nome di suor Benedetta, lo stesso anno in cui entrò la Barone fu fatta richiesta da Vincenzo Castelli per la propria figlia, e nel 1820 anche Rosalia Valenza proveniente anch’essa da Casteltermini, fece professione di fede nello stesso convento (Nicastro, 1980, p. 102).
Nel 1858 il sacerdote Michele Lo Bue, procuratore del monastero, scriveva al Vicario Capitolare della diocesi di Caltanissetta, cui nel frattempo era passata la parrocchia di Sutera, chiedendo per le suore che ormai “sperimentavano la fame” un congruo aiuto. La risposta non tardò, e il 14 aprile dello stesso anno, si dispose un contributo di 20-30 once, da versare al sacerdote che si sarebbe fatto carico di far eseguire i lavori di ristrutturazione e di fornire il vitto giornaliero alle monache. Dal registro della chiesa di Sant’Agata, cui afferiva il Lo Bue, si riscontra che il 28 maggio 1858 il sacerdote Territo gli versava la somma di once 22. Nonostante questo nel 1862 il monastero venne chiuso definitivamente.
L’ultima badessa, ormai in età avanzata, ottenne la dispensa per vivere gli ultimi anni della sua vita in casa dei parenti, dove mori nel 1869 (Nicastro, 1980, p. 104). - Edifici Arquitectura
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Il primo complesso, posto nella parte bassa dell'abitato del paese, era costituito da bassi corpi di fabbrica con murature in pietrame informe, simili a quelle che ancora si trovano nella zona.
Data la conformazione geologica costituita da pietra gessosa scarsamente coesa, le frane erano frequenti e comportavano notevoli spese per il mantenimento delle strutture da parte delle suore che stancandosi dei continui lavori e del luogo periferico tentarono, riuscendoci, a trasferirsi nella zona centrale del paese, prossima alla chiesa di Sant’Agata (Vaccaro, 1881, p. 77).
Il terremoto del 1693 stravolse buona parte della Sicilia orientale e il vecchio monastero ospitò i frati cappuccini, che si rifugiarono nelle sue pertinenze dove rimasero almeno fino al 1705-1708 (Ferlisi, 2004, p. 120).
Nel 1727, visto lo stato in cui versava il monastero, grazie all’interessamento del rappresentante della curia, che fece pressione sull’arciprete, un edificio lasciato per testamento alla chiesa di Sutera venne scambiato con le vecchie strutture del monastero e del giardino. Di questo edificio si costata la consistenza grazie ad una relazione del 1734, stilata dal vicario foraneo don Nicolò Scozzaro; vi si legge che, con riferimento al recupero di “li legnami, canali e pietre”, necessitasse operare in tempi brevi per evitare che nel possibile crollo il materiale, subisse danni (Nicastro, 1980, p. 28). Le suore ottennero un adeguato riparo che non necessitava di spese eccessive per il suo restauro e l'adeguamento alla nuova funzione (Nicastro, 2012, p. 39). L’edificio, che era stato lasciato per testamento da don Paolino Di Marco alla chiesa, si trovava nel quartiere di Giardinello, di rimpetto alla chiesa di Sant’Agata, lungo le vie san Benedetto e via Badiavecchia (Chipparo, 1986, p.37).
Anche la nuova sede, in misura meno onerosa, aveva bisogno di lavori di manutenzione, per cui in data 4 marzo 1732 il vescovo, in una sua missiva, invitava il vicario foraneo a provvedere per il ripristino di un muro del giardino prossimo alle cucine per una spesa di once 12,4 (Nicastro, 1980, pp. 99-100)
Questa nuova struttura era divisa in locali posti su due livelli; al piano terra vi erano: il parlatorio, la cappella, la cucina, il forno, il refettorio, la lavanderia ed, esternamente alla cucina, un piccolo orto; al primo piano, oltre alle celle, vi era la sala comune da lavoro (Nicastro, 1980, p. 30).
Con i successivi smottamenti e terremoti la situazione anche di questa struttura peggiorava ulteriormente. Il terreno franoso aveva compromesso seriamente l’edificio per il quale sarebbe stato necessario un radicale restauro di consolidamento, ma viste le esigue finanze del convento, l’unica soluzione fu quella di chiedere aiuto al vescovo. Nel 1858 un contributo venne richiesto e ottenuto dal vicario capitolare di Caltanissetta.
Forse anche in parte a causa di questi problemi, nel 1862 il monastero venne chiuso definitivamente.
Il pericolante fabbricato fu venduto nel giugno dello stesso anno per la somma di £.1.228,93. Il 21 febbraio 1863, con il pagamento delle tasse di Registro ed il Bollo, da parte dell’arciprete di Sutera don Gaetano Maniscalco, £. 54,56 corrispondenti ad once 4.7.14.1 si estinguevano anche i conti relativi. Oggi è la sede del municipio
Bibliografia i enllaços
- Bibliografia
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Difrancesco, G., 1989. Sutera: i primi anni del ‘900, Sutera: Biblioteca comunale.
Ferlisi, C., 1988. Sutera: il mito e la storia, Caltanissetta: Tecnicografica editoriale.
Chiparo, O., 1987. Sutera: Storia urbana e territoriale, Tesi di laurea, Università degli Studi di Palermo.
Pirri, R., 1773. Sicilia Sacra disquisitionibus et notitiis illustrata, vol. I, Palermo.
Vaccaro, A., 1881. Cenni storici sulla città di Sutera, Napoli: Tip. dei F.lli Carluccio.
Nicastro, L., 2012. Cronache suteresi del XVIII secolo, Caltanissetta: Paruzzo Editore.
Chiparo, O., 1987. Sutera: Storia urbana e territoriale, Tesi di laurea, Università degli Studi di Palermo.
Difrancesco, G., 1989. Sutera: i primi anni del ‘900, Sutera: Biblioteca comunale.
Ferlisi, C., 1988. Sutera: il mito e la storia, Caltanissetta: Tecnicografica editoriale.
Nicastro, L., 2012. Cronache suteresi del XVIII secolo, Caltanissetta: Paruzzo Editore.
Pirri, R., 1773. Sicilia Sacra disquisitionibus et notitiis illustrata, vol. I, Palermo.
Vaccaro, A., 1881. Cenni storici sulla città di Sutera, Napoli: Tip. dei F.lli Carluccio.
- Paraules clau
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Amorella, Aloisia Barone di Casteltermini, sacerdote Michele Lo Bue
- Geogràfics
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Sicilia
- Notes
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Le regole di vita all'interno del monastero relative al XVII e XVIII secolo desunte dai registri del monastero. La vita nel convento seguiva regole ferree e ritmi di vita scanditi; il 25 ottobre 1682 vennero emanate nuove più rigide regole “Ordinazioni e decreti fatti da Mons. Vescovo per il monastero di S. Maria delle Grazie di Sutera”; in realtà già da un quarantennio le regole erano più restrittive sia dal punto di vista formale che sostanziale. Le restrizioni concernevano le confessioni, le chiavi delle porte, ma principalmente la realizzazione di strutture che eliminassero ogni possibile contato, non controllato, con l’esterno: "gelosie" per la “grata che è nel coro che dona nella strada” secondo indicazione del vicario; chiodatura definitiva del portellino della grata posta nella chiesa vicino la porta; sigillatura di tutti i buchi e le fessure della porta della clausura, compreso l’arco per la luce posto superiormente. L’avvicinarsi alle grate era consentito solo ai parenti consanguinei, ed ogni incontro doveva essere autorizzato dal Vicario, inoltre le stesse autorizzazioni dovevano essere archiviate in modo che il Vescovo, se avesse voluto, avrebbe potuto controllarne la periodicità. Si vietava in ogni caso l’ingresso al monastero ai fanciulli di entrambi i sessi. Questo documento, fu consegnato al Vicario che si sarebbe impegnato a leggerlo, nel parlatorio del convento, alla presenza della badessa, delle consorelle, e nelle converse e del confessore. I tempi per adeguarsi alle direttive del Vescovo furono fissati in otto mesi. Le suore che entravano in convento, avrebbero fatto rinuncia dei loro beni, e se anche non avessero preso i voti definitivi, le doti sarebbero rimaste all’ordine; inoltre i tempi di ammissione e presa dei voti erano rigidi e solo dietro autorizzazioni si poteva non rispettarli (Nicastro, 1980, p. 62). Nell'ottica del rispetto dei tempi, nel 1700 suor Giuseppa Aloisia Caldarera, che aveva già concluso l’anno del noviziato, venne "calorosamente" invitata a far versare alla sua famiglia le 160 once che costituivano la sua dote. Datole il termine perentorio di mesi due, passato il quale la suddetta non avendo adempiuto al proprio impegno, fu messa alla porta del monastero, come aveva indicato il vescovo, "anche con l’utilizzo della forza" (Nicastro, 1980, p. 62). Le doti che portavano le professe potevano essere in beni immobili (case o terreni) o in moneta; quando i primi risultavano infruttuosi e non gestibili, la badessa, dopo che aveva chiesto l’autorizzazione al vescovo, li metteva in vendita o li affittava. Nel 1726, l'allora badessa, cedeva a censo per once 2,10 ai fratelli Stefano e Carlo Manueli tredici tumuli e tre quarti di terra siti nel feudo di Milocca (oggi Milena). Tra gli introiti del monastero, del 1744 don Francesco Guarini per la nipote suor Carmela (Vincenza) Guarini, aveva versato un legato di once 6, mentre tra i beni immobile vi era una casa ad una elevazione con orto annesso; visto che le spese di manutenzione dell’edificio superavano la rendita che esso produceva, la badessa optò per la sua concessione a censo, come riportato dalla lettera del 14 agosto 1758, inviata dal vescovo di Agrigento in risposta al memoriale redatto dall’allora madre badessa (Nicastro, 1980, p. 31). La transazione fu eseguita dalla badessa dopo aver ascoltato le relazioni del sacerdote don Michele Presti e del perito, che indicavano il valore del bene in once 40. Gli introiti più consistenti del convento venivano dalle doti delle monache, che pagavano la retta semestrale per gli alimenti anticipatamente. Viste le necessità economiche, per integrare gli introiti, alle suore eccezionalmente, era consentito di commercializzare i loro lavori di cucito, ricamo e filato, al fine di permettersi qualche comodità che il monastero non avrebbe potuto dare. Anche per l’abito le consorelle rispettavano rigidamente le regola non indossando mai colori diversi da quelli dell’ordine; portavano sempre il “soccanno”, o sottogola, solo per il giorno, e se erano professe il velo nero. Quando conferivano con i congiunti in parlatorio dovevano attenersi a ferree regole, pena la scomunica. Il giorno e l’ora erano fissati rigidamente lontani dai momenti di preghiera; alla badessa era demandato il compito di controllare che gli incontri non avvenissero con persone che potevano “haver cattiva amicizia con le Religiose” e inoltre essa stessa, o qualche sua "zelante suora", avrebbe ascoltato le conversazioni. Se si costatava che un ospite, per più incontri, avesse fatto perdere "oziosamente" tempo alle suore, allora veniva comunicato al Vicario che avrebbe preso provvedimenti nella comunità esterna. Durante l’Avvento e la Quaresima le visite erano sospese per tutti e i cancelli erano chiusi avendo cura che il Vicario ne tenesse le chiavi. Nella vita claustrale capitavano anche intoppi burocratici dovuti al carattere delle suore; nel 1718 capitò che a seguito del non apprezzamento dell’operato del Procuratore, la badessa, attenendosi rigorosamente alle regole, per i dissapori nati, chiedeva al Vescovo, la sostituzione dell’allora Procuratore del monastero don Gabriele Di Carlo (Nicastro, 2012, pp. 50-51 n. 2). In una missiva spedita nello stesso anno al vicario foraneo, il vescovo ammoniva la badessa perché non operasse contro il parroco e procuratore don Gabriele di Carlo, fino a quando questo non avesse prodotto la corretta relazione consuntiva e quindi, lui stesso, avesse ritenuto doversi procedere (Nicastro, 1980, p. 33). Il 30 settembre 1724 era stato emesso un nuovo editto reale, a cui dovevano sottostare anche le suore che vivevano in questo monastero. L'editto fu inviato dal vescovo di Agrigento, Anselmo de la Pena; in esso le ferree regole dettate in precedenza (1682) venivano alleggerite; erano escluse quelle che riguardavano le grate del parlatorio, che per non meglio precisati trascorsi, venivano considerate come la porta più utilizzata dal demonio per tentare le suore. Le nuove regole davano facoltà alla badessa di istituire, tra le anziane, una “prefecta di lavori” che si prendesse il compito, insieme ad un’altra ascoltatrice, di trattare con fornitori ed eventuali acquirenti, per i prodotti realizzati dalle suore all’interno del monastero. Riguardo i lavori per cui ci si doveva affidare a persone esterne, vedi “mastri muratori, falegnami, tintori, lignaloro, giardinanaro, garzone…. o medico chirurgo”, era fondamentale l'autorizzazione scritta del Rev. Vicario del Monastero; per gli interventi all’interno del convento, il personale esterno sarebbe stato accompagnato da due suore che avrebbero dovuto portarlo nel luogo dove avrebbe dovuto eseguire il suo intervento, "senza perdere tempo ne deviare dalla via più breve", accompagnato dal suono di una campanella che ne avrebbe segnalato la presenza alle altre suore (Nicastro, 1980, pp. 50-55). Una figura rilevante nella vita del convento oltre alla badessa, era quella della suora portinaia la quale doveva essere ”persona grande d’età e zelante dell’honor di Dio alla quale spetterà aprire la porta della clausura per ogni volta vi sarà necessità si per entrare robba in detto Monastero o persona o altro che fosse di Confessore, medico, molinaro o garzone” (Nicastro, 1980, p. 57). Non tutte potevano essere ammesse come converse o novizie nel monastero, bisognava che fossero in possesso di adeguate caratteristiche, “vergini e di buona fama” oltre ad appartenere a famiglie moralmente sane e principalmente in grado di pagare la retta degli alimenti. Queste, dopo aver presentato la richiesta al vescovo ed aver ricevuto esito positivo dalla votazione delle professe svolta all’interno del parlatorio del monastero, aspettavano il nullaosta definitivo rilasciato dal Vescovo. Il vicario durante la fase di espletamento delle pratiche svolgeva, per il vescovo, un controllo sul reale interesse delle giovani ad entrare, per loro scelta, in convento (Nicastro, 1980, p. 58). Un esempio di carteggio relativo alla richiesta di prendere i voti in questo convento fu quello che fece seguito a una istanza del 30 ottobre 1744 che donna Elena Lascaris de Guarini presentava per conto della figlia Maria Lascaris de Guarini a cui fece seguito la risposta del vescovo Laurentius dettata il primo novembre 1744. Questi invitava il vicario a constatare: lo stato di salute della giovane, la sua effettiva volontà ad entrare in convento, la disponibilità economica della famiglia a pagare la retta e prima tra tutte la sua verginità; inoltre le si comunicava che si sarebbe dovuta impegnare a pagare una sanzione di once 4 se, per qualsiasi motivo, avesse cambiato idea sul prendere i voti (Nicastro, 1980, p. 59). L'accettazione da parte delle consorelle, con la votazione per la giovane si svolse nel parlatorio delle monache il 4 novembre 1744; vi erano presenti oltre tutte le monache, la badessa Maria Maddalena Celauro e il vicario Giuseppe Scozzari. L'ammissione fu accettata all'unanimità dalle quattro suore, visto ciò, il vescovo, con lettera datata 17 novembre 1744 invitava la badessa ad ammettere la giovane nel convento, dopo averle fato pagare anticipatamente la somma di once 4 per il primo semestre. Per completare il suo percorso monastico, pronunciando i voti definitivi, la suora avrebbe dovuto subire una ulteriore votazione (Nicastro, 1980, pp. 60-61). La famiglia Guarini aveva avuto un buon numero di membri che avevano preso i voti in questo convento. Nel 1734 ben tre novizie avevano completato il percorso, ma mentre per le prime due, Maddalena e Paolina, i tempi furono rispettati, per la terza, Girolama, si dovette attendere la dispensa speciale da parte del vescovo. La causa di questa richiesta era dovuta al fatto che veniva mal vista la presenza simultanea di tre suore appartenenti alla medesima famiglia, che avrebbero potuto creare una fazione, potenzialmente capaci di esercitare prevaricazioni nei confronti delle altre consorelle, turbando l'equilibrio e la tranquillità del convento; visto però la corposa somma in contati consegnata da don Gioacchino Guarini, ben once 360, l'intoppo fu ampiamente superato e le tre figlie furono ben accettate (Nicastro, 1980, p. 61). Gli organi preposti alla gestione amministrativa del monastero erano costituiti da un Procuratore o Depositario, ruolo ricoperto da un sacerdote, assistito da due Deputati; quando però la spesa da sostenere era elevata, ci si rivolgeva alla Curia agrigentina. La vita all’interno del monastero seguiva le rigide indicazioni della clausura benedettina, che spesso venivano ribadite da diversi editti, tra questi, il più completo, è quello datato 17 ottobre 1720, tra le indicazioni contenute una riguardava l’obbedienza indiscussa alla madre badessa che era depositaria di "saggezza, sagacia e ponderazione"; questa avrebbe dovuto vigilare sulla spiritualità e comportamento delle monache, occupandosi della chiusura ed apertura delle porte del convento essendo essa la prima ad alzarsi e l’ultima ad andare a letto, compiti questi che solo in casi estremi di infermità della stessa, potevano essere delegati alla vicaria. Anche le chiavi della clausura e dei dormitori seguivano le stesse regole, e a nessuna delle suore era permesso restare al piano terra del convento, pena la scomunica o la segregazione in una cella. La badessa controllava anche l’apertura e la chiusura della chiesa dopo le funzioni, ed era vigile a che le suore non utilizzassero l’oratorio come parlatorio (Nicastro 1980, pp. 38-39). Nel 1720, in seguito alla disobbedienza verso la madre badessa, suor Maddalena Celauro, fu segregata all’interno del convento, restando reclusa per un intero anno, fino a quando il vescovo scrisse al vicario foraneo invitandolo a provvedere conducendo la suora davanti alla badessa di allora, suor Flaggelata Guarini. La Celauro per essere riammessa alla normale vita claustrale dovette sottostare a ferree regole, a cui dovevano sottostare tutte le consorelle: “Innanzi la Badessa dovrà stare sempre in piedi la religiosa, o professa, o novizia che fosse, e nel chiedergli cosa di suo servigio deve sempre farlo con termini humili, a voce bassa. Difformemente sarà cura della superiora correggere e castigare la petulanza di chi non si porta con riguardo ed humiltà. A ciò s’incarica la coscienza dell’Abbadessa atteso che la mancanza d’un tal riparo porta la dissolutezza nel Monastero”. Anche le suore potevano dire la loro, infatti dal regolamento si evince che se una consorella non fosse stata d’accordo con le scelte e le parole della madre badessa, si sarebbe potuta rivolgere al Superiore, che avrebbe avuto il compito di valutare le due posizioni; la badessa meritava rispetto, ma doveva anche comportarsi con rispetto (Nicastro 1980, pp. 45-46). L’elezione della badessa espletata ogni tre anni, avveniva per votazione a scrutinio segreto di tutte le professe, alla presenza del vicario foraneo e dei due deputati del monastero, seguendo un cerimoniale prestabilito. Al ruolo di badessa potevano essere elette solo le suore che avessero compiuto il quarantesimo anno e che “habbia 15 (anni) di professione circospetta e meritevole. Muovendosi per mero impulso dello Spirito Santo e cantandosi l’inno “veni Creator Spiritus” deverrete al primo scrutinio” (Nicastro, 1980, p. 40). Il 12 marzo 1742 la badessa per “abituali indisposizione”, fu costretta a dimettersi e dopo che il vescovo ebbe valutato l’elenco delle professe eleggibili chiamò il 16 aprile dello stesso anno come “Vicaria interinaria”, la più anziana delle consorelle, suor Maria Maddalena Celauro, in modo da poter completare il ciclo di tre anni ed arrivare alla data dell'elezione che abitualmente si espletava il 4 agosto (Nicastro, 1980, p. 39). Da quanto scrisse il 30 luglio 1742 il vescovo Laurentius Gioeni d'Aragona di Girgenti su questi fatti, si possono ricostruire le fasi della votazione, che nella sua missiva venivano indicate al reverendo foraneo e ai due deputati in modo che fossero rispettate dalle consorelle. - La prima fase comportava la convocazione delle moniali in parlatorio dove, fatte inginocchiare, avrebbero dovuto recitare il Confiteor e alla fine di questo avrebbero ottenuto l'assoluzione, come da concessione del vescovo, secondo una forma indicata dallo stesso: “Jesus Christus vos absolvat, et ego autoritate ipsius et beatorum Apostolorum Petri et Pauli ac S. Pontificis Romanae Ecclesiae mihi in hac parte commissa et verbis concessa absolvo vos ab omni vinculo excomunicationis maoiris et minori sed a sentetia interdica”. - Al primo scrutinio si sarebbero dovuti annotare i voti, quindi il Vicario, principale Delegato, si sarebbe pronunziato con questa formula: “In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti – Ego Vicarius Delegatus ab Ill.mo et Rev.mo Vicario Generali huius Venerabilis Monasterii eligo Reverendam Matrem N.N. in Abatissam” a seguire avrebbe dovuto fare cantare il “Te Deum Laudamus”. - Finita questa fase la nuova eletta avrebbe avuto quindici giorni per accettare o rifiutare l’incarico; in caso di rinuncia si sarebbe fatte una nuova votazione. Se anche la terza votazione fosse risultata infruttuosa, l’elezione sarebbe avvenuta d’ufficio per mano del vescovo, che avrebbe dovuto valutare i verbali delle tre votazioni, dove avrebbero dovuto essere indicati anche i dati anagrafici delle consorelle (Nicastro, 1980, pp.39 - 41). Nell’elezione del 9 agosto, prese il titolo di badessa suor Maria Maddalena Celauro; alla votazione avevano partecipato le suore: Onofria Borghese, Francesca Guarini, Paolina Guarini e Carmela Guarini. Una delle più controverse elezioni fu quella del 17 ottobre 1769 quando dopo che per tre scrutini non si riuscì ad avere una badessa, il vicario foraneo don Paolo Carruba e i due Deputati del monastero don Calogero Sanfilippo e don Francesco Tona stilarono e firmarono il verbale negativo inviando l’incartamento al vescovo per la valutazione dei dati e la nomina; questi scelse suor Carmela Guarini, che tra tutte le consorelle era stata l’unica che nelle diverse votazioni non aveva ricevuto nessun voto. Nel 1773 subentrò per elezione suor Paolina Guarini, figlia di Gioacchino, e nel 1778, con riconferma nel 1790, fu eletta suor Rosalia Guarini, figlia di Onofrio. Le suore che parteciparono a questa votazione furono: suor Francesca Guarini cinquantacinquenne da 38 anni professa, suor Paolina Guarini cinquantottenne da 35 anni professa, suor Carmela Guarini cinquantunenne da 29 anni professa, suor Rosalia Guarini quarantaduenne da 23 anni professa, suor Rosaria Piazza cinquantaduenne da 18 anni professa, suor Anna Schicchi trentenne da 12 anni professa, suor Scolastica Di Marco ventisettenne da 7 anni professa (Nicastro, 1980, p. 41). Le giornate erano scandite da precisi ritmi (Nicastro, 1980, pp. 45-47): • Ci si alzava prima che sorgesse il sole, al suono di una campanella; • Durante la vestizione, con segno di estrema umiltà verso Dio “per averle liberate da morte repentina nella notte appena trascorsa”, la madre badessa intonava il Te Deum Laudamus, accompagnata nel canto dalle altre religiose; • Completata la fase della vestizione, ci si doveva inginocchiare e pregare davanti al letto in rigido silenzio; • Al comando della madre badessa, le consorelle si alzavano e in processione, uscendo dal dormitorio, recitavano la “Litania dei santi”, dirigendosi verso il coro dove avrebbero recitato l’officio divino. Tutte le consorelle avevano l’obbligo di essere presenti all’officio divino, salvo che non fossero esentate per malattia o convalescenza, in ogni caso attestate dal medico del convento; • Aperta la chiesa, si disponevano in modo da poter ascoltare la messa; • Alla fine della cerimonia si spostavano nei luoghi deputati al lavoro, dove svolgevano le loro attività, sempre in meditazione e preghiera; • All’ora di pranzo si riunivano nella mensa comune; • Al vespro tornavano nel coro, dove recitavano le “dovute preghiere”; • Al suono dell’Ave Maria, dopo che le consorelle si ritiravano, erano serrate le porte del parlatorio e della chiesa e le chiavi venivano consegnate al Vicario, che le avrebbe custodite fino al mattino seguente quando, con il sagrestano, le avrebbero riconsegnate mezz’ora prima dello spuntar del sole; • Alla fine della cena alle suore era consentito, in un luogo comune, un momento di ricreazione; alla badessa era sempre demandato il compito di controllare che tra le consorelle non sorgessero amicizie particolari tali da causare discordie e risse tra le stesse che “sogliono raffreddare la carità fraterna”; • Si andava a letto in estate alla 22.00, mentre in inverno alle 20.00. Ad un segno della badessa le suore, in religioso silenzio, si recavano nel dormitorio, dove avrebbero fatto singolarmente mezz’ora di orazioni e di esame di coscienza; • Sempre in scrupoloso silenzio le suore andavano a letto, mentre la superiora aveva il compito di controllare che queste operazioni avvenissero correttamente; dopo aver assistito a quest'operazione anche questa andava a letto. Il velo bianco era portato sia dalle novizie che dalle converse, mentre le professe portavano quello nero. Su tutte vegliava l’occhio vigile della madre badessa che aveva il dovere di costatare le effettive intenzioni di novizie e delle suore e la loro condotta morale; in caso di comportamenti non consoni da parte di queste doveva subito informare il Vicario o il Superiore in modo da allontanare la suora dal convento; questa decisione era dettata dal fatto che una minima licenza, avrebbe portato scompiglio nel piccolo convento; erano già capitati in precedenza fatti simili (Nicastro 1980, p. 62). Tra i fatti incresciosi che accaddero nel pacifico e piccolo convento di Sutera se ne ricordano varie. Nel 1760 accadde che il chierico Scibetta aveva scritto un biglietto alla novizia suor Scolastica di Marco, per conto della madre analfabeta. Questo grave atto fu punito con la condanna al carcere, da cui il chierico, però, fuggì, rimanendo per mesi, latitante. Solo dopo che il Vescovo, Andrea Lucchese Palli, si rese conto della buona fede del chierico, con una lettera datata 26 ottobre 1761, intimava al vicario di non procedere oltre nei confronti dello Scibetta (Nicastro, 1980, pp. 56-57). Tra gli uomini autorizzati dal Vescovo a entrare in convento, vi erano il mugnaio (persona morigerata e maritata), il confessore e il medico; insieme al confessore ordinario poteva esserci un’altra figura quella del confessore straordinario, che doveva essere in ogni caso, autorizzato dal vescovo, dopo che fosse stato richiesto da alcune suore. Nel luglio 1779, mentre il vescovo di Agrigento si trovava in visita a Mussomeli, due suore, Rosanna Magro Scannella e Scolastica Di Marco, gli inviarono due missive in cui chiedevano di poter essere confessate da don Giuseppe Vitellaro quale confessore straordinario, chiedevano che la confessione fosse stata effettuata una volta al mese. Don Vitellaro era stato confessore ordinario del monastero fino al 1765, in seguito ad una lettera di censura, stilata da due suore al vescovo di Girgenti, era stato sospeso da questo ministero e al suo posto era stato nominato don Francesco Miccichè; anche l'allora badessa, suor Maria Francesca Lascaris Guarini, si era schierata in difesa del Vitellaro, inviando al vescovo, l’11 gennaio 1768, una lettera in cui specificava le sue ragioni; in una ulteriore missiva aveva puntualizzato chiaramente che le asserzioni delle due consorelle erano prive di fondamento. Queste richieste non sortirono positivi riscontri; il vescovo Andrea Lucchese Palli, con lettera redatta in Girgenti il 29 gennaio 1768, spostò le due suore insieme alle loro doti nel convento di Santa Maria delle Giummare di Sciacca, mentre il confessore fu rilevato dal compito (Nicastro, 1980, pp. 65-67). La perdita dei beni delle due suore nel 1768, veniva a porsi come una nuova e grave perdita per l’economia del convento (Nicastro, 1980, pp. 67-69); le condizioni economiche in cui versava il monastero non erano delle più floride, già nel 1762 la badessa aveva chiesto al vescovo la possibilità di prelevare 30 once per il mantenimento delle monache, ed il vescovo Lucchese Palli, il 3 giugno 1762, concedeva l’autorizzazione con la richiesta al Vicario di accertarsi dell’effettivo utilizzo dei fondi al fine del mantenimento delle suore. Ancora nel 1772 si riverificava il medesimo problema e ancora la badessa richiedeva al vescovo la medesima somma; anche il nuovo vescovo Antonio Lanza autorizzava il prestito, con missiva datata 18 gennaio 1772. La situazione economica portò le suore a scindersi in due fazioni, una che premeva per l'accorpamento ad altro convento più ricco, mentre l’altra fazione perorava la causa di rimanere a Sutera e continuare a “sopravvivere” nel monastero. Queste diverse opinioni portarono spesso a liti tra le due opposte fazioni con la richiesta dell'intervento esterno per dirimerle. Per sedare gli animi i giudici, Carmine Lo Presti Giudice e Gaspare Merlino, si videro costretti, il 26 giugno 1775, a esporre sui fatti al Viceré. La fazione che premeva per lo spostamento era capeggiata da due suore che, istigando le consorelle, chiedevano che queste portassero con loro i beni nel trasferirsi in altro monastero. Durante questa instabile fase per il monastero, le richieste per l'ammissione e l'ottenimento dei voti furono sospese, poiché sarebbe potuto mancare il parere favorevole delle suore. A subire la stasi si trovò suor Rosaria, figlia di don Paolo Magro Scannella, che avendo finito il periodo di noviziato, attendeva la votazione per poter prendere i voti definitivi, e solo quando si placarono le intemperanze delle due consorelle, suor Rosaria poté completare il suo percorso formativo (Nicastro, 1980, pp.70-71). Successivamente a questi inconvenienti la vita nel monastero, anche se con stenti, riprese regolarmente, tanto che, in seguito ad un probabile cambiamento di percorso della processione di San Paolino, il 12 aprile 1779 con lettera firmata da tutte le suore, fu richiesto al vescovo che il percorso non venisse modificato rispetto a quello istituzionalizzato dalla stessa curia il 6 agosto 1771; questo passando davanti alla chiesa di Sant’Agata permetteva alle consorelle di potersi prostrare dall’interno del loro convento davanti alla vara con le reliquie, la supplica al vescovo portava le firme: dalla badessa suor Paolina Guarini, di suor Maria Scolastica Di Marco, suor Giuseppa Guarini, suor Rosaria Piazza, suor Maria Carmela Guarini, suor Rosalia Guarini e suor Rosaria Scannella (Nicastro, 1980, p. 72) Rispetto alle regole ferree della clausura dei primi tempi che ancora per tutto il ‘600 e parte del ‘700 continuarono ad essere adottate, nella seconda metà del ‘700 queste cominciarono ad essere meno restrittive. Le richieste della madre badessa suor Carmela Guarini datate 27 luglio 1771, approvate dal vescovo, avevano permesso un più facile accesso al monastero per i parenti diretti, senza dover procedere alle eccessive e farraginose richieste di autorizzazioni (Nicastro, 1980, p. 76). - Aneddoti nella storia del monastero Il parlatorio del monastero il 19 giugno 1748 era stato teatro di una clamorosa lite tra fratelli e sorelle in buona parte ecclesiasti. Il sacerdote don Carmelo Guarini, avendo appreso che la sorella Alessandra Di Carlo rimasta vedova avrebbe voluto risposarsi con Vincenzo Celauro, dopo aver provato a dissuadere la stessa senza riuscirvi, trovandola nel parlatorio del monastero, dove era andata a chiedere consiglio all’altra sorella, suor Carmela Guarini, insieme all’altro fratello sacerdote Nicolò la percosse brutalmente lasciandola a terra. I fatti furono esposti con dovizia di particolari al vescovo che estromise il sacerdote reo, sequestrandogli tutti i suoi beni. Nonostante ciò la coppia convolò a giuste nozze nel mese di settembre dello stesso anno (Nicastro, 1980, pp. 77-84).